Uno scorcio di vita raccontato attraverso la pittura.
Fioi. In dialetto veneto: figli, fratelli, compagni, amici. Per il mondo dell’arte: coloro che prendono vita nell’ultima seria di opere di Nebojša Despotović: La famosa serie di Fioi.
Interamente realizzata nel 2022 e protagonista della mostra da poco conclusasi alla galleria bolognese CAR Gallery (Nebojša Despotović, Another Race of Vibrations, 21/01/2023 – 04/03/2023), La famosa serie di Fioi, è una raccolta di ricordi e sensazioni legati alla cerchia privata di amici e colleghi più intimi al pittore, che attraverso di essi si racconta, in una sequenza di immagini altamente biografica e personale.
Serbo di origini (nasce a Belgardo nel 1982) Nebojša, per i fioi Nebo, si trasferisce presto a Venezia, dove si forma all’Accademia di Belle Arti e continua a lavorare e vivere tutt’oggi (dividendosi tra la città lagunare e Treviso), dopo un breve periodo passato a Berlino.
Le persone conosciute attorno all’ambiente artistico veneziano costituiscono il database di riferimento per la serie di opere del 2022, segnando una cesura nel suo percorso artistico: per la prima volta, Despotović apre le porte in modo diretto al suo personale vissuto. A dominare le opere sono scenari reali, legati agli anni trascorsi tra gli ambienti dell’Accademia di Venezia. Anni di condivisione, di scambio artistico ed intellettuale a cui l’artista ripensa con una dolce malinconia, legata alla consapevolezza del tempo irrimediabilmente trascorso e lasciata trasparire dalle opere stesse, stratificazione di ricordi ed emozioni ad essi legati. Lungi dall’essere mere documentazioni del reale, quelle raccontate con La famosa serie di Fioi, sono complesse costruzioni mentali, narrazioni non lineari, in cui passato e presente si fondono e confondono.
Il punto di partenza sono fotografie scattate dall’artista e mai del tutto dimenticate, che negli anni hanno avuto modo di sedimentarsi nella mente di Despotović, che ad esse sovrappone nel tempo stati d’animo e riferimenti alla storia dell’arte. Questa operazione non è affatto una novità nella sua pratica pittorica: Nebojša apartiene a quella generazione di artisti che associa senza timore i grandi nomi e capolavori dei maestri del passato all’odierna cultura visiva delle foto, delle riviste, dei selfie, dei social media. Denominatore comune della sua produzione è, infatti, la prassi di attingere immagini da vecchie fotografie: volti e corpi solitamente anonimi, scovati da archivi, libri, riviste in mercatini dell’usato. Immagini non più riconoscibili, la cui storia scompare sotto le dense pennellate, stratificate l’una sull’altra.
Tuttavia, ne La famosa serie di Fioi qualcosa cambia significativamente. Le figure ritratte, il cui nome costituisce il titolo di ciascuna opera, sono perfettamente identificabili, ognuna con la propria fisionomia, attributi, personalità: Cima con il piccolo tatuaggio di One Piece sulla spalla destra; Cri e il suo animo riservato; Nic con i baffi folti; Anna, con la sua espressione così decisa e forte da ricordare Frida Kahlo ed il crocifisso tatuato ben in vista sulla gamba destra. Inoltre, le pennellate, un tempo così dense e piene, lasciano in questa serie spazio al supporto su cui le immagini prendono forma: ragionando per sottrazione, Nebo toglie il colore per lasciar emergere l’aspetto segnico, la struttura della rappresentazione, troppo spesso nascosta e che in queste opere viene invece rivelata. Per Nebojša, il segno è lo strumento più efficace tanto per caratterizzare i personaggi, quanto l’artista che li ritrae. Ed è proprio la parte segnica, infatti, ciò che più racconta della pratica artistica di Stojanović, lasciandone trasparire tutto il vigore.
È emblema di ciò l’opera Bach, dove il colore manca totalmente: il bianco della carta è segnato solo dalle tracce nere delle gestualità dell’artista, lasciando intravedere quello che è stato (e che è ogni volta) il corpo a corpo tra Despotović e la superficie. Per lui, infatti, scrive Andrea Busto (in un estratto dal catalogo della mostra Nebojša Despotović – The Golden Harp a cura di Andrea Busto, MEF- Museo Ettore Fico, Torino 2020), «Dipingere è anche una pratica, è una ginnastica e un esercizio fisico, che si compie di fronte al vuoto della tela vergine […]”. Despotović stesso racconta di come, prima di stendere il colore, si alleni quotidianamente con gestualità e movimenti corporei (spesso ascoltando la musica di Bach, come suggerisce il titolo) che solo poi si tradurranno in pittorici. Bach, con il suo groviglio di segni, così disordinato, nervoso, ma allo stesso tempo controllato, capace di armonizzare l’intero spazio a disposizione, racconta di questa energia corporea, che riempie la superficie contenuta dalla tela, per poi propagarsi all’esterno e coinvolgere chi guarda.
Il ragionare per sottrazione, unito alla fisicità con cui Despotović aggredisce la superficie pittorica, si ritrova in Cima: qui, la carta su cui il colore viene steso è, letteralmente, strappata, per lasciar emergere il bianco sottostante; il colore viene così rimosso dal volto e dal tavolo nella metà inferiore per meglio delineare attraverso il segno gli elementi narrativi salienti, grazie ai quali è possibile contestualizzare la scena.
L’unione di corporeità e rimozione risulta significativa anche in Nic a Borca: il supporto è, in questo caso, una tavola di legno, dove quelle che da lontano possono sembrare delle pennellate più chiare, avvicinandosi, ci si rende conto essere porzioni di legno incise – o meglio, raschiate – in modo volutamente grossolano con la sgorbia, uno strumento che consente di ottenere imprecisioni, diversità di livelli, vibrazioni.
A risultare estremamente interessante ne La Famosa Serie di Fioi è, infatti, la grande varietà di supporti, materiali e strumenti utilizzati in un’unica serie di opere: acrilico, tempera, inchiostro, polvere di gesso e di vetro, che si stratificano gli uni sugli altri, sedimentandosi su carta, tela, legno, rendendo ciascun lavoro non solo pittorico ma tendente ad una dimensione quasi scultorea. Opere in cui la pulizia, la precisione, la bidimensionalità lasciano volentieri il posto ad imperfezioni, grumi di pittura, dislivelli, matericità. In particolare, a proposito delle opere in legno, l’artista racconta di come esse lascino emergere quella che è stata la sua infanzia in Serbia: il ricordo del padre che durante i bombardamenti degli anni 90 recuperava i mobili inutilizzati della casa della nonna, lavorandoli con semplici strumenti da falegname per farne ciò che poteva servire alla famiglia, è rimasto per Nebo un segno indelebile, che gli ha insegnato come con le mani e la creatività si possa dare nuovo valore ad oggetti che in partenza ne sono privi, come la tela o il legno.
A stratificarsi nelle opere di Despotović non sono solo i diversi materiali e le pennellate, ma anche le temporalità. Come già accennato, ai fioi, coloro che appartengono al suo mondo, quello del suo presente e del suo passato prossimo, si sovrappongono i ricordi dell’infanzia, così come i molteplici riferimenti alla storia dell’arte. Non si tratta in nessun caso di citazionismo, ma di appropriazione e rielaborazione, in cui il suo personale stile incontra suggestioni e reminiscenze di Chagall (soprattutto per quanto riguarda la palette pittorica), Picasso, Goya, Velázquez, Picabia, Munch, Tintoretto, Bacon, Morandi, El Greco, Tuymans e tutti quegli artisti che, al di là della forma, lavorano anche sulla superficie pittorica in modo gestuale e materico. Le opere di Despotović diventano così registrazione su tela, carta, legno di tracce lasciate dagli studi di storia dell’arte, memorie del suo passato più remoto e di immagini famigliari e quotidiane condivise con le persone che fanno tutt’ora parte del suo presente.
Ciascun segno, ciascuna pennellata, dunque, sono somme, risultato di tutte queste temporalità, materiali, stati d’animo che l’artista unisce con la propria ricerca, una ricerca che è fortemente personale. Tuttavia, Despotović non si limita ad entrare nel proprio tempo e nella propria memoria, ma è capace di comunicare con quella di chi guarda: le sue opere non parlano solo di persone e situazioni della vita dell’artista e che percepiamo come estranee alla nostra, ma parlano di esperienze che a tratti ci sembra di riconoscere, come riflesse in uno specchio annebbiato ma famigliare.
Nel fare ciò, egli risulta pienamente contemporaneo: come afferma Giorgio Agamben, infatti, contemporaneo è colui che è in grado di trasformare il proprio tempo e “di metterlo in relazione con altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia” (Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, Roma, 2008). E noi tutti, davanti alle sue opere, siamo chiamati a leggere in modo inedito la nostra.