Un’annunciazione in cui la Vergine e l’angelo brindano allegramente con due calici di vino rosso, una Salomè che sembra offrirsi allo spettatore come portata principale di un pasto macabro. Questi alcuni dei soggetti – solo a prima vista disturbanti – che ritroviamo nei dipinti di Saturno Buttò.
Una sua personale intitolata Picta Mentis Revelatae a cura di Massimo Pinotti è stata inaugurata lo scorso 10 dicembre presso lo spazio della galleria MAD di Mantova e sarà visitabile fino al 30 dicembre.
Il percorso di formazione dell’artista, nato a Portogruaro nel 1957, può essere segmentato in tre macro-sezioni: la prima corrisponde all’età adolescenziale quando, guidato fin da subito da una forte attrazione verso l’arte, si iscrive al Liceo Artistico dove apprende la tecnica pittorica classica e il lavoro sul modello, che fa nascere in lui quella passione per la figura umana e la ritrattistica che diventerà una costante del suo lavoro.
La seconda tappa del percorso di Buttò è forse quella più significativa, si tratta del periodo di studio trascorso presso l’Accademia delle Belle Arti di Venezia, dove l’artista sostiene di aver vissuto “un’iniziazione in termini culturali”.
Spinto un po’ da quell’indole tipicamente giovanile che porta a volersi distinguere e un po’ dalla volontà di sperimentazione insita in ogni artista, Buttò sente che la pittura classica comincia a stargli stretta.
Folgorato dall’arte concettuale, che gli permette di spostare l’attenzione dalla tecnica e dal supporto materiale dell’opera al suo significato, comincia a sperimentare con nuove tecniche fra cui la fotografia e il video. Ma ciò che condizionerà principalmente il suo percorso artistico è la Body Art degli anni ‘70, sviluppatasi in un periodo in cui gli artisti, sofferenti nei confronti di un’arte sempre più legata alla sfera economica, scelsero di mettere al centro della propria pratica artistica qualcosa che non si poteva commercializzare: il proprio corpo.
È proprio questo rapporto con il corpo che affascina Saturno Buttò, il quale porrà sempre la sua rappresentazione al centro della propria opera.
In particolare, si trova sintonia con l’opera di Gina Pane, la cui poetica si fonda sull’utilizzo del corpo come medium e soprattutto come strumento per reagire agli stereotipi imposti dalla società. In alcune delle sue performances, Gina Pane si infligge delle ferite e, come una moderna martire cristiana, da voce a una sofferenza che rappresenti quella di tutte le donne. Alla fine della sua carriera l’artista francese realizzò delle installazioni che fanno spesso riferimento a santi e martiri, ispirandosi ad artisti del Rinascimento, come nel caso di San Giorgio e il drago (1984-85).
Come nel caso di Pane, anche nelle opere di Buttò è presente una profonda e personale spiritualità, riscontrabile non solo in soggetti esplicitamente religiosi, come la già citata Annunciazione (2017), ma anche in dipinti che richiamano il sacro grazie alla loro composizione e iconografia: in Hieratic Selfie (2018) una santa contemporanea ha il capo coperto da un velo, un’aureola composta da forbici chirurgiche e i gomiti poggiati su un davanzale che rimanda agli esercizi stilistici del primo Rinascimento; in ORH Negative (2019), invece, in secondo piano è raffigurato un Cristo morto.
L’ultimo segmento del percorso di Buttò dura più di un decennio ed è il periodo solitario che l’artista trascorre nel suo studio affinando la sua tecnica, fino alla pubblicazione della sua prima monografia nel 1993, “Ritratti da Saturno: 1989-1992”. In questo lungo periodo di riflessione l’artista capisce che il modo migliore per esprimere la sua poetica è quello di recuperare la tecnica della pittura e unirla a quelle suggestioni sul concettuale e sul corpo apprese durante gli anni in accademia.
L’opera matura di Saturno Buttò è caratterizzata da un continuo andirivieni fra presente e passato che causa nello spettatore un cortocircuito: è dotata di una chiarezza e di un’attenzione per il dettaglio che la rende quasi fotografica da un lato e reminiscente dei quadri fiamminghi dall’altro; fonde l’utilizzo dell’antica tecnica ad olio su tavola alla raffigurazione di soggetti estremamente contemporanei, persone reali in cui l’artista si imbatte nella quotidianità; si rifà a un’iconografia cristiana in cui la luce che bagna i corpi non è più divina, bensì quella emanata da uno schermo.
Ma ancor più che disorientanti, i dipinti di Buttò si presentano allo sguardo dello spettatore come volutamente disturbanti, osceni, contraddittori: quella stessa struttura dell’opera che il nostro sguardo storicizzato è abituato ad associare a rappresentazioni sacre ci presenta ora corpi completamente nudi, esibiti senza pudore, tormentati da strumenti chirurgici. Eppure il nostro sguardo è irresistibilmente attratto da queste rappresentazioni, forse per la definizione e la qualità del dettaglio con cui vengono rese.
Presente e passato, sacro e profano, dimensione dionisiaca e apollinea: nell’opera di Buttò ricorre costantemente questa duplicità.
Come negli atti performativi autolesionisti di Gina Pane o nella messinscena dei riti sacrificali di Hermann Nitsch, Buttò provoca negli occhi di chi guarda una sofferenza, un’angoscia e finanche un senso di disgusto volto al raggiungimento di una catarsi in grado di liberare il nostro animo da istinti repressi e da tabù imposti dalla società.
Il pregio e la particolarità delle opere di Buttò sta proprio nella sacralizzazione di ciò che tradizionalmente è considerato l’opposto del divino: l’essere umano, messo in mostra senza filtri nelle sue contraddizioni, vizi, sofferenze. Ecco che il perturbante lascia spazio a una sensazione quasi di tenerezza, di pietà nei confronti di questi corpi così reali, così vicini ai nostri. Come David LaChapelle in fotografia, Buttò ci restituisce, tramite la pittura, un messaggio di speranza nelle possibilità dell’essere umano. Come ci suggerisce il titolo della mostra, Picta Mentis Revelatae, le opere di Buttò rappresentano la chiave d’accesso a un nuovo modo di concepire noi stessi e di fare pace con le nostre contraddizioni.