Lunghe dita affusolate, unghie appuntite quasi fossero artigli stringono oggetti enigmatici, accarezzano volti alieni, indicano allo sguardo la strada all’interno del mondo di Danilo Stojanović. Un mondo acquatico, fiabesco, metafisico, che unisce oscurità e giocosità, verosimile e surreale.
Danilo, istriano di nascita (nasce nel 1989 a Pola) ma veneziano di adozione (si forma all’Accademia di Belle Arti di Venezia e rimane poi a lavorare nella città lagunare) lascia emergere nei suoi lavori il legame con l’acqua dell’Adriatico: gli elementi delle sue tele fluttuano, immersi in atmosfere di blu e verdi stratificati ma trasparenti. Una trasparenza densa – per quanto possa suonare ossimorico – proprio come quella della laguna. Figure
fluide e oniriche evocano un mondo libero da vincoli e da precise coordinate spaziali o temporali. Sembrano appartenere ad una dimensione lontana, slegata dal naturalismo terrestre, eppure vagamente familiari, forse perché ci riportano al mondo delle fiabe della nostra infanzia.
Prevalentemente su piccolo formato, le tele di Stojanović ricordano infatti le illustrazioni di un libro di favole; la storia che raccontano non è però già data: ciascuno di noi è invitato a creare ed immaginare la propria. È l’artista stesso, d’altra parte, a compiere questa operazione per iniziare a creare: lasciando affiorare i ricordi delle favole e del folklore croato della propria infanzia, non si limita a dipingerne i personaggi ma ne inventa di nuovi, protagonisti della sua personale fiaba.
Esistono nella quotidianità di ciascuno di noi momenti di vivida immaginazione, in cui memorie e sogni appaiono, si congiungono e poi però svaniscono, il ricordo di quelle visioni diventa sfumato, ci sfugge. Con il suo pennello, Danilo fissa sulla tela questi momenti, dà loro concretizzazione, incarnando così quell’attività della nostra psiche che specchia, distorce e poi mescola sogni, memoria ed esperienza. Difficile dire se le figure rappresentate siano una rilettura metaforica del passato, un presagio, un sogno, o pura fantasie di forme: l’interpretazione spetta a chi osserva.
Si tratta di “entità aliene, alienanti e alienate”, come le definisce Livia Parolin in un testo critico dedicato all’artista: ci sembra di riconoscerle, eppure ci sfuggono; hanno dettagli umanizzati che riusciamo ad identificare, eppure risultano oscure e misteriose; sono spesso accostate ad oggetti del quotidiano come candele e vasi di fiori, ma condividono con loro un’atmosfera surreale, che di quotidiano e familiare ha ben poco. Il mondo evocato dalle opere di Stojanović si colloca, dunque, esattamente a metà tra naturale e sovrannaturale, ponte sospeso e di collegamento tra la sponda del fantastico e quella del reale dello spettatore. L’artista riesce così a tradurre in pittura il passaggio tra il sonno e la veglia, la condizione in cui le forme del quotidiano assumono sembianze simboliche ed oniriche, e viceversa. La figurazione viene trattata in forma metaforica, rimescolando i rapporti tra realismo ed artificio, verosimiglianza e tendenza all’attrazione. L’osservatore è così spinto ad interrogarsi sul significato e la provenienza delle entità che scorge per poter poi creare la propria narrativa.
Le tonalità di colore usate creano atmosfere notturne, le figure sembrano avvolte dalle tenebre o dagli abissi. Tuttavia, non risultano cupe o buie: non mancano guizzi di luce e colori accesi (il rosso in particolare) a dare un tocco di ironia e giocosità. Quest’ironia alleggerisce le opere e le strappa da un buio senza ritorno. Se ad un primo sguardo a dominare è l’oscurità, soffermandosi qualche minuto in più davanti all’opera, lo spettatore si rende conto che, talvolta, sono invece gli spiragli di luce a prevalere. Metafora di ciò è l’opera Midnight Blossom: protagonista della tela – assieme ad un inquietante ma allo stesso tempo elegante mano, dalle dita affusolate e unghie appuntite- è il cereus notturno, un particolare cactus originario dell’Arizona, anche chiamato “Queen of the Night” per la sua particolare fioritura che inizia dopo il tramonto del sole per culminare con l’apertura dei fiori a mezzanotte: questa caratteristica lo rende simbolo perfetto della poetica di Stojanović, dell’invito a vedere nel buio un terreno fertile per la creazione e nascita di un qualcosa di positivo. I fiori del cereus diventano così immagine di tutti gli elementi che sbocciano tra i cieli blu notte delle altre tele dell’artista, le quali – sebbene ad un veloce colpo d’occhio possano sembrare tali- non vogliono essere visioni pessimistiche o storie del terrore (lupi e teschi appaiono ricorrenti come nelle più tetre leggende). Quello che l’artista sembra dirci, piuttosto, è che non dobbiamo aver timore di esplorare il lato oscuro che caratterizza l’inconscio di ciascuno di noi, che anche in esso ci può essere un aspetto ludico. Per poterlo cogliere, serve però recuperare l’ingenuità dell’infanzia, lasciarci attrarre dall’ignoto e dal mistero, altrimenti troppo spesso evitati per rifugiarci nella comfort zone dell’immediatamente visibile, misurabile e, dunque, controllabile.
Risulta evidente, nonché dichiarato dall’artista stesso, il riferimento al concetto di uncunny, il perturbante freudiano.
«Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare.»
Sigmund Freud, Il perturbante, 1919
Derivato dall’omonimo saggio di Sigmund Freud, il perturbante indica in ambito estetico il sentimento che si sviluppa quando un oggetto (o una persona, un’impressione, un fatto o una situazione) viene avvertita come familiare ed estranea allo stesso tempo: ne deriva una sottile sensazione di angoscia e confusione, che tende ad allontanarci da quella cosa, ad ignorarla.
Le opere di Stojanović esplorano e si confrontano esattamente con questo tipo di straniamento, invitandoci a farlo a nostra volta. Le sue sono immagini arcane e oscure, ma che appaiono tuttavia intime e conoscibili. Inoltre, unendo atmosfere ed elementi tetri a tocchi di colore accesi, esse sembrano dirci che il nostro inconscio, le nostre paure e inquietudini non sono necessariamente un modo completamente oscuro in cui sprofondare ma nel quale possiamo invece tuffarci di tanto in tanto e fluttuare leggeri, proprio come le figure delle tele.
In questo confrontarsi con l’inconscio, nello sfumare i confini tra realtà e sogno, Stojanović riflette su molteplici modelli: lo straniamento percettivo della metafisica, i mondi onirici del surrealismo e del simbolismo (anch’essi fortemente influenzati dalla psicoanalisi freudiana); i corpuscoli fluttuanti di Redon, gli spettri e le presenze inquiete di Panuška, così come tutta la corrente mistico-esoterica che ha caratterizzato l’arte delle fin du siecle nell’Est Europa; non mancano le suggestioni derivate dall’espressionismo tedesco, l’inquietudine della pittura di Munch, l’ironica malinconia di Norbert Schwontkowski, le cui piccole tele -proprio come quelle di Stojanović- raccontano una storia con poche pennellate, a metà tra astrazione e rappresentazione. Se si guarda invece al panorama contemporaneo, un artista che Stojanović studia con ammirazione è Kai Althoff, le cui narrazioni composte da elementi frammentari ed indecifrabili attirano lo spettatore in territori sconosciuti: quello che i due artisti condividono è l’invito a immergerci nel loro sottile gioco di dettagli, allusioni, itinerari, incantesimi.
Permeate di influenze diverse, le opere di Stojanović partecipano alla tendenza di un ritorno alla pittura sempre più presente nell’arte di oggi e messa in luce dalle più recenti fiere d’arte contemporanea (capaci di offrire uno spaccato delle convergenze e linee di forza del sistema dell’arte attuale). Dopo anni in cui la ricerca degli artisti sembrava essere orientata verso opere installative o l’utilizzo delle più recenti tecnologie, e relegare la figurazione ad una posizione conservatrice non al passo con i tempi, le edizioni appena conclusasi di Paris +, Art Basel, e le italiane Artissima, ArtVerona, Roma Arte in Nuvola evidenziano un ritorno dell’essere umano (o comunque antropomorfo) come oggetto pittorico da liquefare, deformare, ibridare; una pittura che è sempre più libera, svincolata da rigidità compositive, per accedere direttamente alle dimensioni oniriche di sogni o incubi. Un modo dunque, per sfuggire alla realtà o, meglio ancora, rielaborarla, farla propria attraverso poetiche immaginative, traducendo nel linguaggio dell’arte le emozioni ed i sentimenti di inquietudine che ci pervadono di fronte alla necessità di affrontare le sfide della crisi del mondo contemporaneo.