“Durante i secoli dell’Evo Medio, come il filosofo e il credente aspirano all’assoluto, così l’artista volge la sua ricerca al generico.”
Le parole di Luigi Coletti costituiscono la perfetta cornice storico-critica della carriera artistica di Tomaso da Modena. Una descrizione dell’arte dell’evo medio non come antologia di particolari, ma come espressione del generico al fine di superare i particolari. In questo periodo il linguaggio artistico attraversa un lungo processo di allontanamento dalla realtà apparente per la costituzione di un’arte ascetica, per cui possiamo parlare di una vera e propria arte metafisica volta all’ideografia, ovvero al disegno di un’idea.
Intorno al XII secolo avviene un profondo mutamento sociale destinato a riversare il suo impatto anche sul piano culturale: nasce il Comune e con esso si va a definire una nuova classe sociale, la borghesia; è un gran fervore d’opere d’arte; San Domenico e San Francesco fondano gli ordini monastici mendicanti, che ebbero un potente impatto sulla popolazione dei fedeli. Henry Thode nel 1885 pubblicò un lavoro intitolato: San Francesco d’Assisi e gli inizi dell’arte del Rinascimento in Italia, la cui tesi centrale vuole Francesco rappresentante della borghesia appena affacciata alla storia, il primo individuo che si afferma come tale, e che con la sua capacità di proselitismo inaugura un’arte per tutti. Attraverso san Francesco, quindi, tutto il mondo europeo si rinfresca e si rinnova; un senso nuovo di realismo pervade l’arte e l’avvia su nuovi cammini. Non a caso, precisava ulteriormente:
“Da Giotto a Raffaello, c’è un movimento unitario: e ciò che è comune in tutto questo movimento, e cioè una concezione che pone in armonica consonanza religione e natura, ha le sue radici in Francesco d’Assisi.”
Inizia in Francesco un protagonismo dell’individualità che, prima dell’Umanesimo, trova sostenitori esclusivamente in Giotto e in Tomaso da Modena (è un elemento suggestionante il fatto che il nostro Tomaso da Modena nasca nel 1326 ovvero esattamente cent’anni dalla morte dell’assisiate). Dagli sfondi dorati delle icone medievali, gli artisti, al fine di interpretare il nuovo protagonista della scena sociale (la borghesia) devono riportare “i piedi per terra” e rappresentare mimeticamente il mondo reale, la vita quotidiana: il naturalismo, il pragmatismo è la natura intrinseca della borghesia. Più di un secolo occorrerà per la maturazione completa del fenomeno che giungerà progressivamente a compimento dall’Umanesimo quattrocentesco fino alle Rinascenze cinquecentesche.
Rivolgendo il nostro sguardo strettamente al settore artistico, protagonista assoluto della scena del XIII diviene un toscano, il cui nome non necessità di ulteriori presentazioni: Giotto di Bondone. La gestione spaziale giottesca, con l’introduzione della visione prospettica, è di un equilibrio etereo e perfetto, ma, concentrandoci sull’osservazione dei volti dei personaggi, siamo costretti a notare come essi, pur prendendo consistenza di corpi in carne ed ossa, permangono ad essere personae, cioè maschere in uno scenario.
È solo con Tomaso da Modena che, per la prima volta, viene sfondato il velo dell’idealizzazione per assaporare la realtà nuda e cruda, ma andiamo a conoscere direttamente questo artista avanguardista e sfortunato.
Tomaso Barisini nasce a Modena tra il 1325 e il 1326 dal pittore Barisino dei Barisini e l’aria che respira da giovane, iniziato all’arte probabilmente dal padre, è quella della pittura bolognese di Vitale da Bologna. Quest’ultimo aveva assimilato la lezione giottesca metabolizzata attraverso il filtro delle generazioni pittoriche riminesi che avevano lavorato nel cantiere che Giotto aveva allestito a Rimini per il ciclo pittorico nella Chiesa di san Francesco ( oggi meglio nota come Tempio Malatestiano). Molto incerto però è ciò che ci rimane del periodo giovanile di Tomaso.
Alcuni documenti testimoniano che il 9 gennaio 1349 Tomaso si trovava a Treviso , dove il fratello Benedetto era morto da poco (probabilmente colpito dalla peste). Infatti qui, nella sala capitolare del convento domenicano di San Nicolò, si trova un’opera firmata e datata dal pittore. L’iscrizione identificativa, che si trova affianco alla cerniera interna del portone della sala, recita:
“Anno Domini MCCCLII prior tarvisinus ordinis predicatorum depingi fecit istud capitulum et Thomas pictor de Mutina depixit istud.”
Questa è considerata il capolavoro dell’arte di Tomaso da Modena. Il convento di San Niccolò è situato al margine sud-ovest della città, accanto alla chiesa omonima, ed è diventato, a partire dal 1840, sede del seminario vescovile. Seguendo il portico orientale del chiostro minore del complesso conventuale si giunge ad un grosso portale ad arco acuto, affiancato da due bifore romaniche; superata questa soglia, ci si immerge in un ambiente senza tempo. Tra le due finestre lunghe e strette della parete che ci troviamo di fronte vi è una Crocifissione con la Vergine e San Giovanni Evangelista, della seconda metà del Duecento. Della stessa mano è anche il fregio a motivi vegetali posto sotto il soffitto ligneo a travature. Tomaso riceve l’incarico di eseguire un nuovo ciclo pittorico sulle pareti laterali della sala capitolare. La commissione viene dal priore, Fra Fallione da Vazzola, e dal padre provinciale Fra Francesco Massa, che dimorava nel convento e che sperava di potervi ospitare, nel 1352, il Capitolo generale dell’Ordine (speranza che andò delusa). Per il ciclo pittorico venne scelto il tema della glorificazione dell’ordine domenicano; Tomaso realizzò la rappresentazione senza ricorrere a elementi simbolici, come quelli che si trovano nel famoso cappellone degli Spagnoli in Santa Maria Novella a Firenze opera di Andrea di Bonaiuti del 1356-1368, creò invece una piccola enciclopedia domenicana: una schiera di quaranta illustri frati, ognuno nel proprio studiolo, affiancati da didascalie contenenti il sintetico elenco delle opere del proprietario dello studiolo.
Quaranta monaci, dunque, in due serie che si dipartono dal mezzo della parete di fondo, ovvero dalla crocifissione, verso la quale sono rivolti. Fanno eccezione solo tre figure, quelle dei Santi canonizzati: Domenico, Tommaso Aquinate e Pietro Martire, che si trovano nell’angolo orientale, ovvero alla destra del Crocifisso; esse sono poste di prospetto: si rivolgono direttamente a chi è nella stanza. Purtroppo queste ci sono giunte in cattivo stato di conservazione. Tomaso da Modena sfugge il rischio della ripetitività della rappresentazione con la variazione degli atteggiamenti e delle espressioni dei soggetti. C’è chi addita, chi legge, chi colleziona e confronta, chi scrive, chi medita, chi soffia sulla punta del calamo, chi appuntisce lo stilo, chi riga la pagina. Seguendo il ritmo delle mani troviamo chi si meraviglia, chi prega, chi segue il filo della lettura, chi vi poggia il capo con fare meditabondo. Infine troviamo nelle celle particolari oggetti che mai prima erano stati rappresentati in pittura: gli occhiali inforcati dal cardinale Ugo di Provenza, la lente che il cardinale Nicolas de Rouen usa per leggere, la clessidra del cardinale Guglielmo d’Inghilterra, lo specchio di Fra Isnardo da Vicenza. È l’ingresso del vero nell’arte.
È una novità e una forza, quella del linguaggio tomasesco, che ritroviamo anche in altre sue opere trevigiane: dalla colonna nella stessa chiesa di San Nicolò, agli angeli della Madonna in Santa Lucia, dall’affresco della Cappella Giacomelli in San Francesco fino al secondo apice delle Storie di Sant’Orsola in Santa Margherita.
Quest’ultimo ciclo ha una storia complessa. In primo luogo esso non è firmato né datato, per cui , se l’attribuzione stilistica a Tomaso non viene messa in dubbio, si può collocare tra il 1355 (dopo il compimento del ciclo domenicano) e il 1358 (quando è documentato a Modena in un atto notarile). In secondo luogo, si tratta di un ciclo di affreschi staccato. L’avventurosa vicenda dell’opera è iniziata nel 1883, quando la chiesa di Santa Margherita, a fronte delle espropriazioni napoleoniche, viene sdemanializzata e trasformata in maneggio: prontamente Luigi Bailo, affiancato da Girolamo Botter e Antonio Carlini, intervenne per salvare le opere presenti sulle pareti della chiesa, che furono staccate e così il ciclo entrò a far parte delle collezioni civiche.
Luigi Bailo fu protagonista della scena culturale trevigiana per quasi un secolo, promuovendo la diffusione della cultura, intesa come strumento indispensabile per la crescita morale e civile della nazione e in particolare della città di Treviso. Nel 1862 Bailo decise di lasciare il Seminario di Treviso per iscriversi alla facoltà di filosofia di Padova seguendo i corsi di Pietro Canal e Andrea Gloria. Tornato a Treviso nel 1865 si mise al servizio della propria città impegnandosi in molteplici attività didattiche e divulgative: fu per un cinquantennio insegnante di greco presso il Liceo di Stato e collaborò a numerosi periodici locali. Nel 1878 fu nominato bibliotecario della Biblioteca Comunale di Treviso, avviando un riordino degli istituti culturali cittadini culminato con la fondazione del Museo Civico trevigiano traendo spunto dagli allestimenti dei più innovativi musei italiani. L’ingresso di un primo nucleo di opere, a seguito dello stacco avventuroso in Santa Margherita nel 1883 di cui abbiamo detto, costrinse le autorità comunali a concedere al Bailo nuovi spazi espositivi per il museo.
Attualmente si sta progettando un intervento museografico per dare un nuovo allestimento al ciclo che oggi è collocato nella chiesa di Santa Caterina e viene presentato con un allestimento di fine anni Novanta che oltre ad occupare l’intera sala conferenze in cui è stata convertita oggi la navata della chiesa, è allo stesso tempo disposto in modo non rispettoso dell’ordine narrativo.
Altrettanto avventurosa è la storia che il ciclo racconta: la vita di Sant’Orsola, che viene rappresentata seguendo fedelmente il testo istituzionalizzato ne La Legenda Aurea di Jacopo da Varazze (o da Varagine). Orsola, figlia di un re di Britannia che si era consacrata a Dio, viene chiesta in sposa da un re pagano consigliata da una visione avuta in sogno, Orsola, contro il volere del padre, accettò il matrimonio a condizione che lo sposo si battezzi. Partì quindi con undicimila compagne (secondo alcune versioni, anche con il promesso sposo) e in compagnia della regina Gerosina, sua madre, e delle sorelle, per un pellegrinaggio a Roma, dove fu ricevuta da papa Ciriaco (personaggio sconosciuto alla storia); durante il soggiorno romano di Orsola, a Papa Ciriaco apparve in sogno un angelo che lo invitava ad abbandonare il seggio papale e seguire Orsola nel viaggio di ritorno in Britannia Il pellegrinaggio passò per Colonia, che era stata appena conquistata da Attila: il re Unno chiese in sposa Orsola che però lo rifiutò questa rifiutò: così il flagello di Dio uccise lei e tutto il suo seguito.
Il ciclo si caratterizza a livello formale per una narrazione plastica di estrema raffinatezza ed eleganza, il cui fil rouge è l’uso della lamina d’oro sui ricami degli abiti alla moda indossati delle donne del corteo di Orsola, che sono fedeli a quelli indossati effettivamente nelle corti del XII sec. Ogni scena si sussegue secondo una magistrale regia teatrale in cui agli attori è richiesta una forte partecipazione psicologica ed espressiva di naturalezza quotidiana espressa per mezzo di sguardi contriti e gestualità marcata con un’efficacia narrativa viva che coinvolge e cattura lo spettatore in un crescendo che conduce dallo spogliarello dell’uomo in primo piano nell’episodio del battesimo del Principe al triste epilogo reso con intensa e ricomposta drammaticità.
Tomaso da Modena è un pittore che in italia rimane ai margini della storia dell’arte medievale, è più studiato oltralpe per le opere che lo legano all’imperatore Carlo IV e al Castello di Karlšteinc -in quanto personalità il cui modus non ha avuto seguito, ma possiamo considerarlo un avanguardista dello psicologismo, del vero e dei “moti dell’animo”.
Per chiudere il cerchio, torniamo a citare la densità descrittiva di Luigi Coletti:
“Con Giotto era stata la conoscenza; coi Senesi, il capriccio; coi Bolognesi, l’appetito. Ma, con Tomaso di Modena, è l’amore.”