Facciamo subito una premessa fondamentale: leggere Il bar sotto il mare di Stefano Benni è una delle migliori scelte che si possano fare.
Per descriverlo nel modo più sintetico possibile, un uomo si imbatte casualmente in un bar sotto il mare, ne incontra i rocamboleschi avventori (alcuni fra tutti: la bionda, l’uomo invisibile, il cane nero) e ascolta la storia che ciascuno di essi propone. Spaziando fra stili narrativi, personaggi e ambientazioni diverse, Benni gioca adottando l’espediente narrativo di un luogo eccezionale, inesistente, e offre una struttura a quella che altrimenti sarebbe una semplice miscellanea di racconti senza alcun filo connettivo.
Il bar sotto il mare si offre come luogo raccoglitore, si rende “insieme” e concede lo spazio e l’occasione necessari allo scambio e all’incontro di persone – rendendo concreta una possibilità di coesione delle storie che vengono a intrecciarsi; come la villa fiorentina del Decameron, o il saloon di Star Wars, le Wunderkammer – qui convergono vicende di conoscenti e forestieri, tanto diverse e distanti fra loro, che altrimenti non avrebbero mai avuto connessione, modo di legarsi, di essere esposte.
Questa immagine proposta da Benni mi è rimasta tanto impressa da essere divenuta una personale chiave di lettura nel mio modo di identificare i luoghi. Non serve un luogo assurdo come un bar sotto il mare per poter godere e apprezzare le storie di altri luoghi “crocevia”.
In questa particolare occasione, a divenire mio oggetto di studio è stato il Teatro La Fenice di Venezia; non lo nego, per puro caso. Esistono infatti poche persone più precise e affezionate agli anniversari di un appassionato di musica classica e si dà il caso che il 2023 segni i 200 anni dalla prima assoluta de La Semiramide di Rossini, come un mio buon amico violoncellista ha voluto farmi notare. È bastata una breve ricerca a rivelare che la prima si è tenuta alla Fenice e a mettermi la pulce nell’orecchio.
La musica – l’arte, più genericamente – è una esperienza collettiva, di contatto: è naturale che il luogo adibito ad ospitarla sia progettato appositamente per servire quest’uso. È facile quindi pensare al teatro come un luogo solenne, intoccabile, sacro; in fondo è anche questo. Tuttavia sono le persone a fare i teatri e sono sempre le persone a dare vita alle storie, comprese le più curiose.
La nascita stessa della Fenice parte da una collettività – o meglio, dal desiderio condiviso di una collettività – in questo caso identificata con la Nobile Società dei palchettisti.
Nel 1700 la città lagunare ospita sette teatri, fra cui il Teatro di San Benedetto. Ricostruito in seguito a un incendio nel 1773, la Società – proprietaria del teatro – entra in dispute amministrative con la famiglia Venier, proprietaria del fondo, cui deve cedere l’edificio. Questo li spinge nel 1789 ad avviare il bando per il progetto di un nuovo teatro. Il 16 maggio 1792, dopo anni di critiche, fra cui motti satirici e addirittura sonetti diretti ai lavori di costruzione, apre le porte uno dei più prestigiosi teatri di sempre. Battezzato col nome “Fenice”, la Società dei palchettisti cerca di ricominciare sotto un segno di buon auspicio.
Il Teatro si afferma e nel corso di poco più di due secoli ospita e connette alcune delle più importanti personalità di campo artistico musicale; per citarne alcuni: compositori come Rossini, Donizetti, Bellini; Igor’ Stravinskij, Sergej Prokof’ev, Benjamin Britten – cantanti come Maria Callas, Luciano Pavarotti, Renata Tebaldi, Franco Corelli. Si potrebbe passare giorni a scovare e approfondire le intriganti vicende di questa comunità artistica, spesso dal gusto quasi leggendario. Potrebbe essere utile, dunque, farne una distinzione in due gruppi.
Alcune storie prendono vita sul luogo, grazie al luogo: questi sono le tragedie e/o i trionfi delle prime assolute. Sono episodi a volte particolarmente famosi, che vengono ricordati e che restano parte fondamentale nella storia della fortuna di un’opera (basti rammentare come se ne contino ancora gli anniversari, come provato dal mio amico violoncellista nominato in precedenza).
Un esempio fra tutti è giusto nominare: Giuseppe Verdi. Il compositore porta cinque prime assolute al Teatro La Fenice, tra cui due delle tre opere della rinomata “trilogia popolare”. Celebre è il clamoroso successo con cui viene accolto Il Rigoletto nel 1851.
Ancora più celebre, forse, è il fiasco che si accompagna alla seconda – e il fatto che questo fiasco riguardi proprio La Traviata, opera oggi fra le più conosciute e replicate al mondo. (Giusto per presentare un fatto curioso e ribadire come queste storie si intersechino costantemente: La Traviata otterrà successo l’anno seguente, nel 1854, al teatro Gallo, prima conosciuto come teatro Venier, e prima ancora conosciuto come Teatro di San Benedetto. Sì, quel Teatro di San Benedetto).
Ci sono poi le storie che le persone portano già con sé – come gli avventori del bar sotto il mare di Benni. È affascinante in questo caso gettare uno sguardo sulle vite dei cantanti, personaggi intensi e spesso circondati da questa aura carismatica, capaci di caratterizzare un’epoca. La Fenice ha visto le esibizioni di Isabella Colbran (la moglie di Rossini), Giuditta Grisi, Giuseppina Strepponi (la compagna di Verdi), di voci come Giuseppina Grassini (una delle più celebri amanti di Napoleone).
Una delle figure chiave, fra tutte, è senza dubbio Maria Garcia Malibran. Soprano, pittrice e compositrice di grande talento, viene ricordata per la sua vitalità e per dettagli come la sua celebre gondola di color grigio chiaro con cui soleva recarsi a teatro. Fu tanto amata tanto, al punto di vedere il proprio nome apposto al Teatro di San Giovanni Grisostomo “Malibran”, oggi seconda sede della Fenice.
Dopo averne descritto le caratteristiche di locus-crocevia di esperienze e racconti, è importante rammentare che si tratta, dopotutto, di un luogo fisico. Un ambiente reale, che nel corso della sua storia ha visto ristrutturazioni, aggiustamenti, gusti di epoche diverse, così come innovazioni di carattere tecnico. Speciale menzione va fatta per il palco reale, approntato provvisoriamente in occasione della visita di Napoleone Bonaparte e in seguito allestita in maniera definitiva.
È il 1996 quando La Fenice brucia per la seconda volta dalla sua fondazione. La seconda, esatto. “Fenice”, che doveva essere un nome beneaugurante, pare invece riconfermarsi un caso di nomen omen nella sua declinazione più negativa. È facile ricordare con ironia, un po’ amara, di come questa fosse stata la stessa sorte del Teatro di San Benedetto.
Al motto di “com’era, dov’era” – già adottato per il campanile di San Marco – si annuncia un appalto per la ricostruzione del teatro: il progetto vincitore è opera del milanese Aldo Rossi. (Impossibile non notare come questo, il progetto di rinascita per eccellenza, corrisponda all’ultimo progetto di Rossi, che viene a mancare prima di vederlo realizzato).
Non è la prima volta che l’affermato architetto e teorico dell’architettura (primo italiano vincitore del Premio Pritzker nel 1990) realizza un progetto per un teatro nella laguna: nel 1979 la Biennale già aveva visto realizzato il Teatro del Mondo, un teatro galleggiante “legato all’acqua e al cielo” di cui Rossi particolarmente apprezzava “il suo essere una nave e come una nave subire i movimenti della laguna”. In questo particolare contesto, però, Rossi vede immediatamente delle forti limitazioni poste dal motto sopracitato. Non solo, trova impossibile seguirlo alla lettera: “[…] se è possibile costruire “dove era” non credo sia possibile costruire “come era”. Anche se questo progetto si attiene fedelmente al bando non può ricreare quel ritratto di famiglia che solo l’architettura del tempo – e un’impronta personale – possono dare”. Il suo progetto, spiega, introduce solo alcuni cenni personali. Conclude infine affermando: “[…] abbiamo lavorato alla ricostruzione della Fenice non per rimediare ad un disastro ma per ricreare un monumento di Venezia”.
Rossi pare afferrare esattamente il cuore della questione: non è possibile ricreare fedelmente la patina frutto di un labor limae di secoli, mani, teste e storie diverse. Operare nell’ottica di “monumento” – introducendo al tempo stesso alcune innovazioni – permette al teatro di restare fedele al proprio percorso di “luogo crocevia”: lo spazio per storie già avvenute viene rispettato, lo spazio per le storie future garantito. Il bar è aperto.