La mostra a palazzo Te
Intrighi, omicidi, amori passionali e vendette.
È una puntata di Desperate Housewives? No, è l’arte dei primi decenni del ‘500 con i suoi continui riferimenti alla mitologia classica e alle favole di Apuleio e Ovidio; è un’arte che si esprime liberamente, anche nel suo erotismo, non ancora stroncata dalla controriforma cattolica; è soprattutto l’arte degli affreschi di Giulio Romano a Palazzo Te, ma è anche quella di Peter Paul Rubens.
Sebbene a inizio ‘600, infatti, la controriforma sia ancora in atto, le maglie delle sue restrizioni vanno allentandosi e l’austerità lascia man mano lo spazio all’opulenza dell’arte barocca. Si inaugura l’epoca imperiale del papato dove i padri della chiesa, più che uomini di fede, sono dei veri e propri regnanti aristocratici, colti collezionisti e impositori del gusto.
È in questo contesto che si colloca il giovane artista fiammingo che, senza ancora rendersene conto, diverrà uno dei padri del barocco.
Poco più che ventenne, Rubens intraprende un viaggio che lo porta da Anversa prima a Venezia e poi a Mantova. Il giovane pittore si riempie sicuramente gli occhi dei vibranti colori di Tiziano e dell’imponenza dei quadri di Veronese, ma è soprattutto il suo soggiorno a Mantova, dove rimane otto anni, ad essere determinante per la sua formazione. In particolare, sono proprio gli affreschi di Giulio Romano, che Rubens aveva avuto occasione di vedere solo attraverso le stampe in bianco e nero che circolavano in tutta Europa, a rappresentare il punto di riferimento per tutta la sua opera. Immaginiamo l’emozione del pittore quando varca la soglia di Palazzo Te e vede per la prima volta dal vivo gli affreschi in tutta la loro spettacolarità e vividezza dei colori.
È proprio da qui che parte “Rubens a Palazzo Te. Pittura, trasformazione e libertà”, visitabile a Mantova fino al 7 gennaio 2024. Mostra che ci offre il privilegio di vedere accostati i dipinti di Rubens agli affreschi di Giulio Romano e di poter così comprenderne a pieno il gioco di rimandi e connessioni. I magnifici affreschi di Palazzo Te, infatti, furono la palestra perfetta per il giovane Rubens, che riuscì così a creare al contempo una sintesi dell’arte che lo precedeva e un’anticipazione dell’arte che gli sarebbe succeduta.
Amore disperato
L’allestimento, che accosta sapientemente dipinti e affreschi, ci consente di immergerci nelle storie avventurose e passionali che essi raccontano.
Nella sala di Amore e Psiche, per esempio, i personaggi narrano storie di amori tormentati, di invidia e vendetta. Così come la curiosità della giovane Psiche di Giulio Romano viene tentata dall’invidia delle sorelle che la istigano a scoprire la vera identità del suo innamorato, la bella Deianira di Rubens viene tentata dalla furia. Tuttavia, se la storia di Psiche ha un lieto fine, Deianira non è altrettanto fortunata.
Violato il patto di non poter scoprire mai l’identità dell’amante, Psiche si trova a dover affrontare le quattro insidiose sfide che la dea Venere le ha imposto come punizione. Nonostante Psiche sia tentata più volte di porre fine alle sue sofferenze con il suicidio, riesce a portare a compimento le sfide e può finalmente congiungersi in matrimonio con Amore, entrando a far parte del regno degli dei. La povera Deianira, invece, rimane vittima della sua stessa gelosia: persuasa nel credere che la veste intrisa del sangue di Nesso abbia il potere di farla amare per sempre dallo sposo Eracle, gliela fa indossare causandone invece una morte atroce. Divorata dal rimorso, Deianira si toglie la vita.
Protagonisti assoluti di questa sala sono i corpi femminili: eleganti e statuari quelli di Giulio Romano, voluttuosi e sensuali quelli di Rubens. I rimandi fra i due autori non si limitano però alla mitologia, ma anche agli esercizi stilistici. Lo notiamo nel delicato e al contempo possente corpo di Eufrosine, una delle tre grazie di Rubens, la cui posa contorta si rifà alla Venere di Giulio.
Hybris
Nella camera delle aquile ritorna quel tema della tracotanza, della sfida al potere che viene reso in modo così grandioso nella sala dei giganti.
Fetonte, figlio di Apollo, sembra cadere proprio sulle nostre teste. Accecato dalla superbia e volenteroso di dimostrare di essere figlio di un dio, prende le redini del carro del padre, ma non sapendo domare i cavalli, va incontro a una rovinosa fine. Il giovane, infatti, si avvicina troppo alla terra, incendiandola. Zeus scaglia allora una saetta contro il suo carro, facendolo precipitare.
Lucifero, nel dipinto di Rubens, fa la stessa fine: avendo osato sfidare gli angeli di Dio, viene sconfitto da un San Michele con un’armatura luccicante e un mantello rosso vermiglio, colto nell’atto di scagliare una saetta contro l’avversario ribelle, con la stessa potenza dello Zeus ritratto da Giulio Romano.
Gli eroi fallibili
Le opere di Giulio Romano, così come le storie antiche a cui si ispirano, sono sempre dominate da un dissidio, da una forte tensione fra i personaggi e i loro stati d’animo. Questo è particolarmente vero per figure come Ercole o Achille, eroi ma non per questo perfetti, infallibili. Entrambi portati a confrontarsi con emozioni profondamente umane, come l’ira.
Questa umanità è ben rappresentata dalla titubanza di Ercole al bivio colto nell’atto di scegliere se dedicare la sua vita al vizio o alla virtù, raffigurato da Giulio Romano nel fregio della camera dei candelabri; ma anche nell’Achille scoperto da Ulisse di Rubens, il quale, per tentare di sfuggire alla morte a cui sarebbe andato incontro partecipando alla guerra di Troia, si rifugia presso la corte di Licomede, travestito da donna.
Ecco che la mostra a palazzo Te ci consente di cogliere un passaggio fondamentale non solo per la formazione di Rubens ma per tutta la storia dell’arte: Rubens, in grado di attingere al manierismo e ai riferimenti classici di Giulio Romano, al colore dei pittori veneziani e all’attenzione fiamminga per i dettagli arriva a concepire un nuovo linguaggio internazionale, “una lingua figurativa europea, la prima della Storia dell’arte”.
L’esposizione in questo senso diventa anche un’occasione per riflettere su come non vi sia mai una completa rottura con il passato, bensì una trasformazione, che invita ad indagare sugli elementi di connessione piuttosto che su quelli di scissione.