Early life
Petrit Halilaj è nato nel 1986 a Runik, un piccolo paesino del Kosovo. All’età di 12 anni Petrit ha dovuto lasciare la propria casa per vivere in un campo profughi, poiché Runik è stato completamente distrutto dagli dagli attacchi dell’esercito serbo diretti contro gli abitanti di etnia albanese in di quello che è l’odierno Kosovo. La vita nel campo era molto difficile, così Petrit iniziò ad esprimere le sue emozioni nei suoi primi disegni: immagini spaventose della guerra, ma anche uccellini e stelle, elementi di fantasia che lo aiutavano ad esplorare i propri sogni. I fogli e le matite hanno dato a Petrit la forza per vivere questo periodo di difficoltà.
Carriera
Petrit Halilaj si è poi trasferito in Italia, dove ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Brera: è nel nostro paese che ha iniziato la sua carriera da artista, per poi muoversi tra l’Italia e l’Europa, trovando nella città di Berlino un ambiente particolarmente accogliente; senza dimenticare il piccolo villaggio di Runik, dove è tornato spesso. I continui spostamenti all’inizio della sua carriera non hanno mai permesso a Petrit di sentirsi a casa e l’artista ha continuamente indagato questo tema sviluppandolo nella propria ricerca sul senso di appartenenza. Non a caso l’opera che ha reso l’artista così famoso è “ The places I am looking for, my dear, are utopian places, they are boring and I don’t know how to make them real”. Si tratta della “ricostruzione” della sua vecchia abitazione presentata alla Biennale di Berlino del 2010, realizzata con oggetti e frammenti che ha ritrovato nel villaggio d’origine a distanza di anni dallo scoppio della guerra.
Petrit Halilaj nel corso degli anni è diventando un artista riconosciuto in tutto il mondo, le sue opere sono state esibite in diverse mostre e gallerie tra gli Stati Uniti e l’Europa. Nel 2018 è approdato al The New Museum di New York con una personale e nel 2021 al Tate Modern di Londra presentando una mostra temporanea dal titolo “Very volcanic over this green feather”. Un’altra installazione artistica rilevante per la carriera di Petrit che vale la pensa di menzionare è la mostra personale presentata al Palacio De Cristal a Madrid nel 2020, nella quale grandi strutture di metallo di uccelli migratori vivevano tra enormi fiori che pendevano dal cielo. Si tratta di un grande trionfo dell’amore, ogni fiore rappresentava un messaggio personale, dedicato alla famiglia, ai suoi viaggi e al suo compagno, Alvaro Urbano, anche lui un noto artista contemporaneo. Nelle opere più recenti di Petrit gli animali dei suoi primi disegni d’infanzia prendono vita tra fiori e piante, in un mondo dove la natura è in pace con l’intero creato.
A Venezia
A Venezia l’artista approda due volte alla Biennale: nel 2013 al padiglione del Kosovo e nel 2017 al Padiglione Centrale, dove ha presentato la sua opera “Abetare” grazie alla quale ha ottenuto una Menzione Speciale. Abetare è il titolo del libro che tutti i bambini che parlano albanese ricevono all’inizio della loro istruzione: è un ricordo della sua infanzia, ma anche un segno per ricordare l’esistenza di una lingua che la guerra non è riuscita ad eliminare.
Quest’anno Petrit Halilaj ha fatto la sua ultima visita a Venezia in occasione della mostra realizzata per OceanSpace, visitabile tra il 22 aprile e il 5novembre 2023.
In questo contesto Petrit, il compagno e artista Alvaro Urbano e l’artista Simone Fattal hanno realizzato un’esposizione intitolata “Thus waves come in pairs”. L’ apertura della mostra è stata preceduta da una performance dal nome “Concerto per 7 sculture e 7 musicisti” in cui Alvaro e Petrit si sono mossi tra gli spettatori travestiti da gabbiani, animali al limite tra l’urbano e il naturale ben noti alla città di Venezia. La performance si è tenuta nel campo della chiesa di San Lorenzo per poi spostarsi all’interno, accompagnati dal suono di strumenti e dai movimenti di animali avveniristici.
Le opere e le performance artistiche sono state concepite in occasione del programma di Ocean Space dedicato al Mar Mediterraneo, in cui gli artisti coinvolti hanno voluto rivelare in questi spazi un futuro surreale e innaturale, in cui la vita umana dipende e viene influenzata dall’incontro di nuove specie animali e vegetali. Questo progetto espositivo è stato sostenuto da Ocean Space, realtà veneziana impegnata in progetti artistici e ambientali incentrati sulla salvaguardia dei mari e l’edizione precedente ha visto come protagonista il Mare Nostrum. Infatti, il Mediterraneo sta affrontando come tutta la superficie terrestre il cambiamento climatico, ma ad un ritmo del 20% superiore rispetto a qualsiasi altra zona del pianeta mettendo a rischio non solo l’intero ecosistema, ma anche la vita stessa delle persone. Il destino del nostro mare e la laguna di Venezia potrebbero assomigliare ad una realtà che oggi appare distopica o immaginaria dove saremo chiamati a confrontarci con flore e faune ancora sconosciute. L’esposizione “Thus waves come in pairs” ha presentato un possibile scenario di quello che ci potrà attendere.
Degne di nota, le opere di Simone Fattal sono due statue grigie ai lati dell’altare di San Lorenzo che raffigurano Màyya e Ghalyàn, una coppia ricorrente tra le leggende popolari della cultura araba e mediorientale. Queste culture sono parte integrante dell’identità dell’artista, originario della Siria e del Libano.
Nello stesso contesto Petrit Halilaj e Alvaro Urbano hanno collaborato alla realizzazione di diverse installazioni, tra queste spiccava all’interno della chiesa “Lunar Ensemble on Uprisng Seas”, un grande uovo appeso con un filo al soffitto, vicino al vecchio altare: una grande luna che rappresenta da sempre il simbolo della rinascita, oltre ad essere un elemento capace di influenzare e dirigere le maree delle acque, e in particolare quelle della laguna, ma anche, da sempre, un simbolo di rinascita che appeso al soffitto sopra un altare non può che ricordarci il capolavoro di Piero della Francesca, che senza dubbio è stato un punto di riferimento per Petrit nel periodo di formazione a Brera.
In un mondo di animali e piante colorate l’arte di Petrit non lascia spazio al grigio e ai ricordi tristi della sua infanzia; le sue opere vivaci sono un inno alla speranza per il futuro, in cui ci si augura che la storia e le memorie riescano a trovare uno spazio in cui unirsi, uno spazio che Petrit stesso definisce come “piccoli nidi” in cui riposare. La sua arte si fa portavoce di un messaggio do ottimismo, sottolineando la possibilità di trasformare anche i ricordi più difficili in spazi di crescita e di rinascitascita; e, per analogia, ci parla di comenegli ecosistemi più inverosimili si possono comunque trovare degli elementi di appartenenza.