Un fanciullo ci attende all’entrata della mostra.
Dal suo balcone, che dà direttamente sulla laguna di Venezia visibile sullo sfondo, il giovane posa per il ritrattista con sguardo fiero e abiti blu di fine fattura, ricco di ricami dorati e pizzi leggeri, attorniato da preziose pelli e tendaggi di velluto rosso.
Accanto all’opera, queste parole:
«Benvenuti nel nostro mondo. Vi accompagneremo attraverso le private stanze, dove i dipinti vi racconteranno i gusti, i desideri e le aspirazioni della nostra epoca. Vagheremo tra lembi di costa, antiche rovine, capricciose invenzioni e frammenti di campagna bagnati di sole, per approdare in territori incantati, dove la vita è fatta della stessa materia di cui sono fatti i sogni.»
Il riferimento shakespeariano che conclude l’ultima frase introduce perfettamente il visitatore all’atmosfera onirica e impalpabile delle opere che, dopo pochi passi potrà ammirare.
Ma chi è quel fanciullo? Quali sono le sue origini? Ed il suo nome?
L’autore stesso non ci rivela alcunché. Ma il ruolo qui, in apertura della mostra intitolata All’ombra di Canaletto. Paesaggi e “capricciose invenzioni” del Settecento veneziano, che esporrà a Padova presso il museo Eremitani fino al 17 settembre 2023, risulta evidente: questo fanciullo diverrà, lungo tutto il percorso della mostra, il nostro giovane Virgilio, che tenendoci per mano ci accompagnerà per terra e per mare mostrandoci sogni, fantasie e vagheggiamenti di un’epoca ormai lontana.
In particolare, la mostra si concentra sulla Venezia di fine XVII secolo. Allora, la Serenissima godeva di un fiorente commercio in Europa quanto in Oriente, ed era dimora e studio di artisti non solo italiani ma anche stranieri, che raggiungevano la penisola per mostrare la propria arte e affinarla, ispirandosi ai grandi artisti italiani che li avevano preceduti.
L’ampliamento d’orizzonti artistici fu però reciproco, dato che proprio a partire dal 1700 nacquero e si affermarono a Venezia due nuovi generi pittorici, ispirati da maestri nordici: il paesaggio ed il capriccio.
Per molti artisti nordeuropei (quale ad esempio Johann Anton Eismann, presente con più opere nella mostra) il paesaggio aveva infatti smesso di essere mero sfondo sulla tela, diventando il vero e proprio protagonista a cui affidare il significato dell’opera stessa.
Così, nelle opere degli artisti italiani il paesaggio avanzò sul proscenio, in grande stile. In una prima stagione, gli artisti veneziani non si limitarono a rappresentare le campagne venete e la città lagunare, bensì raffigurarono scene in cui la Natura stessa appariva particolarmente suggestiva: scene marittime e costiere in cui le forze dei venti e delle acque si scatenano sull’uomo; panorami rocciosi, circondati da tronchi contorti e forti contrasti di luce, come risulta evidente nell’opera di Antonio Marini intitolata Paesaggio con arco naturale e cavalieri; inverni particolarmente rigidi, visibili in Paesaggio invernale con adorazione dei pastori, di Francesco Aviani, e Paesaggio invernale di Bartolomeo Pedon.
In queste tre opere si può notare chiaramente quanto l’ambiente naturale, qui mostrato in tutta la sua grandezza, sia in primo piano. Nel dipinto di Marini, le figure umane occupano una porzione limitata all’interno della tela e sono in parte in ombra, mentre la luce del sole sembra proprio voler evidenziare l’enorme parete di roccia retrostante, l’arco di pietra e i due alberi che, plasmati dal tempo, sembrano attorcigliarsi tra loro.
Le altre due opere degli artisti veneziani rappresentano due inverni rigidi, in grado di rendere la quotidianità umana più faticosa e dura: possiamo osservare come la scena biblica dell’adorazione dei pastori occupi una zona liminare dell’opera Paesaggio invernale con adorazione dei pastori e che al centro di essa vi sia una distesa bianca di neve, che rende complessa la distinzione tra paesaggio naturale e abitazioni e che obbliga numerosi pastori alla raccolta del legname o alla protezione dei greggi all’interno delle stalle.
Nel dipinto di Pedon lo sguardo dello spettatore non può che posarsi sull’albero che, con i suoi rami ghiacciati, sembra voler nascondere dietro a sé le tracce della cittadina portuale rappresentata. Prove delle asperità della stagione, le rive ghiacciate che intrappolano le navi, gli uomini che frettolosamente si dirigono al riparo ed un uomo che, in basso, sembra chiedere aiuto dopo essere scivolato sulla superficie ghiacciata.
Come affermano le note della curatrice Federica Spadotto, presenti lungo il percorso della mostra, «la capitale pittorica del XVIII secolo non smette di volgere lo sguardo al Nord Europa, anzi, intrattiene una fitta rete di rapporti con i paesi d’Oltralpe. I suoi artisti lavorano con soddisfazione all’estero, riportando in Laguna l’eco di paesi lontani, che seducono il pubblico con scene d’osteria, battute di caccia e suggestioni letterarie.»
Osserviamo allora Macbeth e le streghe di Francesco Zuccarelli; la scena raffigura chiaramente uno degli iniziali momenti dell’atto primo dell’opera, in cui Macbeth e Banco (i due personaggi al centro) si imbattono nelle Sorelle Fatali mentre sono di ritorno ai propri castelli dopo aver sconfitto numerose armate. Qui, le tre streghe riveleranno delle profezie ai due uomini, riguardanti il loro destino e quello della loro futura stirpe; per rappresentare questo momento, Zuccarelli immerge i personaggi in una natura inquieta, che sembra esplodere, perdere la ragione. Un forte vento plasma alberi e arbusti; un fulmine si scaglia sul castello che si trova sullo sfondo; l’acqua del fiume esce dagli argini, costringendo un pastore a fuggire con il suo bestiame. Il paesaggio è quindi profondamente coinvolto nella scena e permette allo spettatore di percepire la straordinarietà e la grandezza di questo momento all’interno della narrazione.
Il paesaggio rappresentato non fu però sempre sinonimo di forze naturali incontrastabili; a partire dagli anni ’30 del 1700 gli artisti si cimentarono nella rappresentazione luoghi bucolici ed arcadici, in cui, come indicano le note curatoriali, «le leggiadre creature travestite da umili contadini, che incarnano l’ideale della bellezza declinato a gioia di vivere» fossero in pace tra loro e con la natura circostante.
Un ottimo esempio presente alla mostra può essere l’opera di Giovan Battista Cimaroli, intitolata Paesaggio ideato lungo la Brenta con villani a riposo, in cui i soggetti sono immersi in un’atmosfera sognante, con una luce d’alba che soffusamente illumina le cime degli alberi e si riflette nello specchio d’acqua del fiume. Osservando la scena, l’unico movimento rapido che si può immaginare è quello del cane che, in basso nel dipinto, gioca con un bastone assieme al suo giovane padrone.
Passiamo ora al secondo genere pittorico che, nel corso del secolo, si affermò a Venezia: il capriccio.
In esso, afferma in nota la curatrice, «la fantasia dell’artista guarnisce uno scenario campestre o suburbano di ruderi classici, che convivono con le costruzioni del tempo e, talvolta, con edifici di pura invenzione. Entro questi scenari il pubblico era chiamato a vivere un sogno, dove i luoghi conosciuti potevano diventare mondi paralleli da percorrere e riscoprire ogni giorno».
Luoghi inventati quindi, privi di coerenza o razionalità, che avevano come principale scopo quello di stupire ed incantare.
Diamo un’occhiata a Capriccio con frati di Antonio Visentini: qui, i due personaggi risultano minuscoli se confrontati con le nubi temporalesche alla loro destra e con l’immenso e riccamente ornato palazzo che, alla loro sinistra, si staglia sul paesaggio montuoso. Tale ambientazione non è riconducibile ad alcun luogo realmente esistente ed appare chiaramente come l’unione di elementi architettonici e paesaggistici imponenti, che vogliono suggestionare lo spettatore.
Questo genere pittorico fu inoltre testimone, durante l’ultimo decennio del 1700, di una tragica trasformazione politica veneziana, ovvero la fine della Serenissima. L’occupazione da parte delle truppe francesi, capitanate da Napoleone Bonaparte, del territorio appartenente alla Repubblica di Venezia ne decretò la dissoluzione nel 1797. Gli artisti veneziani furono profondamente influenzati da questo cambiamento, e attraverso il capriccio tentarono di fuggire dalla realtà del proprio territorio e di costruire, nei loro dipinti, dei luoghi alternativi in cui la città lagunare, quasi miraggio o vestigia, appare con delle tracce nelle opere.
Francesco Guardi e Francesco Tironi ci forniscono due bellissimi esempi, con i loro quadri intitolati Veduta immaginaria con rovine classiche e la colonna di San Marco e Capriccio con rovine e l’isola di San Giorgio.
L’atmosfera sognante e grandiosa offerta in precedenza si trasforma qui in qualcosa di enigmatico e incerto, poiché i luoghi e le architetture in rovina non appartengono più a grandi civiltà del passato, le cui tracce ricordano la grandezza ed i fasti che la penisola ebbe nei secoli, bensì alla Venezia contemporanea, che ben presto cadrà nelle mani del generale francese.
Così, la Basilica di San Giorgio con la sua ampia facciata ed il suo campanile e il leone di San Marco sembrano perdurare come monito e simbolo della resilienza di questo grande popolo lagunare.
Proprio per celebrare e riscoprire queste radici culturali veneziane è nata questa mostra, All’ombra di Canaletto. Paesaggi e “capricciose invenzioni” del Settecento veneziano, che esporrà a Padova presso il museo Eremitani fino al 17 settembre 2023 e che raccoglie ben 82 dipinti appartenenti a musei e collezioni private di autori più o meno noti, veneti e stranieri, che allo stesso modo rimasero affascinati dalla mitica città sull’acqua.
Come affermò lo stesso autore Guy de Maupassant, quasi un secolo dopo:
«Quando arriviamo in questa città inusitata, la contempliamo immancabilmente con occhi prevenuti e rapiti, la guardiamo coi nostri sogni.»
Guy de Maupassant, Venezia, 1885