Dall’atto III di Sei personaggi in cerca d’autore.
- “- Capocomico: E il copione? Il copione dov’è?”
- “- Il Padre: Dentro di noi signore, il dramma è dentro di noi, siamo noi”.
L’anno è il 1905 e il luogo la Parigi della Belle Epoque.
Sullo sfondo degli eccessi del Moulin Rouge e di una società che è ancora cristallizzata nell’800, un giovane artista spagnolo dipinge quelli che trent’anni prima erano i soggetti che tanto avevano affascinato un altro gigante della pittura moderna: Edgar Degas. Pablo Picasso però non potrebbe essere più lontano da quest’altro artista che, nella sua fase declinante, aveva ben fotografato la Parigi della fin de siècle: se Degas infatti era parigino di sangue, Picasso lo era solo d’adozione, essendosi trasferito da Barcellona nella sua iconica residenza del Bateau Lavoir, all’interno del quartiere bohèmien di Montmartre, solo nel 1905.
Quello fu un anno cruciale per il giovane spagnolo il quale intravide per la prima volta la luce dopo un lungo periodo di lutto per la morte violenta ed improvvisa dell’amico Carlo Casagemas, evento che aveva tinto di blu le sfumature della sua tavolozza e lo aveva portato a rimettere in discussione la vera essenza della sua vita e della sua arte. Ora, nel tentativo di ritrovare parte della serenità che gli era venuta meno, e di placare i dubbi che la morte dell’amico aveva fatto nascere in lui, Pablo entra in una finestra temporale nella quale, coinvolto anche dalla relazione con Fernande Olivier, tenta di farsi influenzare dai colori ed i curiosi soggetti del Circo Medrano, luogo situato a pochi passi dalla sua porta di casa.
È l’inizio del “periodo rosa” dell’artista, in cui, a differenza del precedente, torneranno nella sua pittura un calore umano, una tavolozza calda ed una vivacità che prima tanto gli mancavano: è in questo contesto che nasce Famiglia di saltimbanchi. Spesso additato nei manuali di storia dell’arte come l’opera paradigmatica del periodo rosa, si tratta in realtà di uno dei dipinti più enigmatici appartenenti alla produzione di questo momento: se infatti il tema e le tonalità impiegate per renderlo sono pienamente nei canoni, le facce squadrate dei singoli personaggi, dall’espressione indecifrabilmente vacua, oltre a rappresentare un preludio alla fase africana di Picasso, costituiscono il vero fulcro dell’intera rappresentazione: sono infatti quegli occhi persi e quei mezzi sorrisi accennati a turbare in modo sottile ma incisivo l’osservatore e a stridere con l’atmosfera burrosa della scena.
La famiglia circense appare infatti inquieta, quiescente, alienata … come se fosse sul punto di rompere l’illusione pittorica ed interagire direttamente con il pubblico, scrutandolo, giudicandolo e forse chiedendo aiuto: pare infatti che ciascuna figura si stia interrogando sul proprio ruolo all’interno della composizione e all’interno della propria realtà; esattamente quindi come Picasso in questa fase della sua vita, colto tra le incertezze esistenziali, e forse anche sentimentali, ognuno sta cercando il proprio autore. E il proprio lieto fine.
Il tema dell’alienazione e della ricerca di un proprio posto all’interno di una società sempre più “teatro della grande poesia metallurgica” – come la definiva F.T. Marinetti – è proprio il cardine attorno a cui ruota tutta la letteratura a cavallo tra secolo breve e secolo lungo: sulla spinta dei cambiamenti sociali generati dalla rivoluzione industriale furono infatti molti quelli che sentirono di aver smarrito la loro “aureola”, ragion per la quale è la mancanza di identità a risultare come la chiave di volta per la comprensione di questa curiosa vicenda pittorica.
Tenendo bene a mente gli sguardi enigmatici dei personaggi circensi di Picasso, lasciamoci ora trasportare ad una calda serata romana, nel maggio 1921, quando al Teatro la Valle andò in scena per la prima volta uno dei primi drammi meta teatrali ideati dalla geniale mente di Luigi Pirandello, tra i più stimati autori del Novecento: Sei personaggi in cerca d’autore. Nonostante l’opera fosse stata enormemente anticipata dalla critica, la serata si trasformò in un caotico e mortificante disastro con molti degli spettatori che, a metà della rappresentazione, si alzarono in piedi a contestarla a suon di “manicomio! manicomio!”.
Pirandello aveva osato troppo, persino per gli spregiudicati anni venti, che però in Italia, come ben ricordiamo, furono dominati dalla severità del clima del “Ritorno all’ordine”, periodo cadenzato dalla presa del potere del Fascismo e da movimenti culturali “squadrati” come Novecento Italiano. Sei personaggi in cerca d’autore era controcorrente rispetto la moda del momento in quanto proponeva una trama che, infrangendo secoli di solidi canoni di tradizione teatrale, andava ad innestarsi direttamente nelle vite del pubblico, in modo volutamente provocatorio, per renderlo contemporaneamente spettatore ed attore partecipe della finzione scenica. Trattava infatti di ciò che accade ai personaggi di una storia quando questa viene drammaticamente abbandonata dall’autore e di come questi stessi sei personaggi, smarriti nella loro incompletezza, facciano disperato appello al Capo comico di una compagnia teatrale chiedendo che sia portato a termine il loro racconto lasciato a metà; è infatti in gioco il loro ruolo, la loro stessa identità di personaggi che, lasciati in balia degli eventi, sono ora figure a metà fra il reale e la finzione, mezzi uomini appesi ad un filo, incompiuti ed irrisolti. Facendo quindi leva su questo, e rendendolo parte integrante della vicenda (in quanto gli attori recitavano direttamente dalla platea), era intenzione di Pirandello interrogare a sua volta il pubblico e spargere negli animi degli spettatori il seme del dubbio circa la propria vita: sono anche io un personaggio in cerca del mio autore e del mio fine?
Non sarà l’ultima volta che Pirandello provocherà il pubblico in questo senso: il 5 giugno 1937 calca infatti le scene il dramma i Giganti della montagna, ancora una volta incentrato su di una compagnia teatrale, la “Compagnia della Contessa Ilse” i quali incontrano un altro curioso gruppo di attori, gli “Scalognati” (dal nome della Villa dove sono raccolti), autentici emblemi grotteschi e malinconici della perdita dell’aureola dell’artista nel mondo contemporaneo. Ritorna qui prepotentemente il concetto di alienazione, il trait d’union tra Picasso e Pirandello. Gli “Scalognati” sono infatti l’esempio di cosa accada nel contemporaneo a quelli che sono alla ricerca del proprio autore e del proprio fine: ne pagano lo scotto, venendo emarginati da una società ormai troppo superficiale e industrializzata per lasciare ancora spazio a figure così irriducibili come gli artisti; la stessa Ilse, protagonista femminile del dramma, alla sua “fine” ammette, poiché invitata a recitare di fronte ai Giganti stessi, di aver paura di farlo e mostrarsi come se stessa. Se lo abbia fatto o meno rimane una questione aperta: i Giganti della montagna rimane infatti l’unica opera inconclusa da Pirandello, forse proprio per lasciare a noi libertà d’interpretazione. Che Ilse si sia riscattata? Che abbia trovato il coraggio di riprendere la propria “aureola” e occupare il suo legittimo posto nel mondo?
Sono questi i dubbi che celano, a mio avviso, quegli occhi vitrei dei circensi di Picasso. Tradizionalmente interpretati come gli emblemi della ritrovata serenità dell’artista sono anzi i veri simboli di un dramma più presente che mai all’interno del suo animo: è il dramma di sapere che è una figura fuori dal tempo, che non detiene più un ruolo nel mondo del 900 e che dovrà lottare per una legittimazione dalla società. È il dramma della perdita dell’aureola, e, in fondo, è lo stesso dramma che abita in noi, quando veniamo meno al nostro vero essere e dimentichiamo di perseguire la sempiterna ricerca di noi stessi.