Che la mostra in questione ospitata lo scorso anno dal 1 Giugno al 13 Luglio venisse dal contesto statunitense lo si intuiva ad un primo colpo d’occhio: un tripudio di supereroine multiculturali “animavano” le pareti bianche di Palazzo Merulana, nel cuore del quartiere Esquilino. Novanta tavole e gigantografie realizzate da ventidue artiste donne che hanno contribuito, ognuna a suo modo, all’autodeterminazione femminile nel mondo dei comics nordamericani, a partire dal fumetto vintage anni ’50 e dalla psichedelia degli anni ’70. Per citarne alcune: Afua Richardson e Alitha Martinez afroamericane e attiviste, vincitrici dell’Eisner Award per il loro lavoro su World of Wakanda della Marvel; Colleen Doran o Emil Ferris, il cui graphic novel La mia cosa preferita sono i mostri, pubblicato in Italia da Bao Publishing e diventato un vero successo editoriale di critica e pubblico, è stato premiato come “miglior fumetto dell’anno” nel 2018.
“E’ una mostra che racconta tre generazioni di autrici donne che hanno cambiato, non solo il modo di lavorare all’interno dell’industria dei fumetti, ma anche la percezione che ne hanno i lettori, il pubblico, la critica” ha chiarito Luca Piccoli, curatore dell’iniziativa italiana con ARF! Festival e Comicon.
Non è dunque un caso che la mostra newyorkese in esclusiva europea, ospitata nella capitale nel su proposta dell’ambasciata statunitense, sia stata curata da due leggende della scena americana del fumetto: Kim Munson, critica d’arte, e Trina Robbins, attivista e militante classe 1938, nota ai più per essere stata la disegnatrice della prima Wonder Woman realizzata per la DC Comics. La Robbins ha avuto il merito, in termini di sensibilità alle tematiche di genere, di contribuire ad incrinare la narrazione stereotipata della principessa che dev’essere salvata, proponendo un modello alternativo femminile di donna orgogliosa e indipendente, in grado a sua volta di soccorre supereroi in difficoltà.
“Ho cominciato a ricercare sulle prime donne fumettiste perché tutti gli uomini avevano detto che non c’erano state donne che disegnavano fumetti, e io sapevo che non era vero. Il fatto è che quello che non è scritto viene dimenticato e tutte queste donne di talento erano state dimenticate perché nessuno degli uomini che scrivevano la Storia dei fumetti era interessato a ricercare e scrivere su di loro”.
Un bel “vuoto da colmare” lo definiva fumettista, la quale si batte costantemente ancora oggi, nonostante l’età, per un’adeguata rappresentazione femminile in ambito artistico in senso ampio, protestando laddove nelle didascalie delle opere d’arte esposte nei grandi musei d’arte non trova indicati nome e biografia delle protagoniste femminili dipinte. D’altronde, la “sua” stessa Wonder Woman, non essendo una vera donna in carne ed ossa, ma frutto della creatività dell’autrice, è stata più volte vittima di stravolgimenti interpretativi e strumentalizzazioni del corpo, rappresentata talvolta con un seno che sembrava crescere in maniera inversamente proporzionale alla grandezza del celebre costume rosso.
Il documentario proiettato nella sala, She makes comics ovvero “…la storia mai raccontata delle donne nell’industria dei fumetti” della regista Marisa Slotter, presentato in Italia per la prima volta a ciclo continuo, ha raccolto interviste a protagoniste del graphic novel autoriale. Ognuna di esse, con la propria esperienza professionale, ha contribuito a far fare passi da gigante in direzione di un’adeguata rappresentazione femminile anche nel settore editoriale, il quale, come molti altri, si è rivelato essere a forte impronta maschile e maschilista.
A dare un “quid” in più all’evento sono stati i quattro incontri in diretta streaming su Facebook e Zoom, piattaforme che, come ci ha insegnato il periodo di chiusure appena trascorso, si stanno rivelando essere strumenti imprescindibili per stabilire un dialogo e un contatto più diretti con il pubblico “a distanza” e in grado di facilitare un confronto, come in questo caso, tra le protagoniste oltreoceano e le colleghe italiane, tra le quali Rita Petruccioli o Fumettibrutti, su temi attualissimi: movimenti femministi e arte militante, corpo femminile e rappresentazione nel disegno, antirazzismo, intersezionalità. Le tematiche sono state trattate con la giusta sensibilità e ciò ha consentito di utilizzare le colorate tavole esposte o i cartonati a grandezza naturale come punto di partenza per stimolare una riflessione più ampia sulle conquiste sociali degli ultimi decenni.
Negli Stati Uniti, già a partire dalla metà del secolo scorso, l’autoproduzione underground di figure pionieristiche come la Robbins ha aperto la strada a una seconda generazione di donne che, avvantaggiata dalle conquiste nel settore ottenute dalla generazione precedente, ha continuato a lottare con la propria pratica quotidiana per l’abbattimento del pregiudizio secondo il quale “i fumetti non sono per ragazze” e per il riconoscimento di pari dignità professionale rispetto ai colleghi autori uomini. Sempre più donne della vecchia generazione dei comics hanno deciso di uscire dalla produzione “nerd”per affrontare il competitivo mercato editoriale; ad oggi sono, in effetti, considerate un modello e fonte d’ispirazione per altre giovani adolescenti che timidamente bussano alle porte delle grandi case editrici di tutto il mondo nella speranza di vedere pubblicati i graphic novel realizzati nel chiuso delle proprie camerette.
Non sempre succede, anzi raramente, ma si tratta talvolta di lavori minuziosi e preziosissimi, mondi interiori espressi con segni grafici e scelte stilistiche diversissime, che, nei casi più eccezionali, si traducono in grandi successi europei. A tale proposito vale la pena citare il celeberrimo lavoro della francese Mirion Malle approdato (finalmente!) in Italia grazie alla traduzione a cura de L’orma editore: “Commando culotte”, denso come un saggio di sociologia ma divertente come un fumetto, analizza e illumina il lettore sugli insospettabili stereotipi di genere che ci vengono proposti da celebri serie tv (Game of Thrones, School of Rock, American Pie), cartoni Disney e film americani. La lettura di un fumetto come questo può essere, per certi versi, illuminante e può contribuire a modificare silenziosamente e inconsapevolmente l’approccio futuro del lettore ai contenuti trattati. L’impatto visivo con le buffe figure colorate, disegnate in maniera elementare della Malle, aiuta inoltre a stemperare i contenuti trattati.
Quello proposto a Roma non è stato, dunque, un semplice evento espositivo – seppur originale – tra i tanti, ma una vera e propria rassegna delle conquiste sociali raggiunte, a fatica, anche grazie al contributo dei comics scritti da donne e con protagoniste femminili. Ancora prima di essere stata un’interessante occasione di svago per curiosi di passaggio nei pressi del Basilica del Laterano o giovani studenti che approfittano delle aule studio al piano terra del Palazzo, Women in comics ha rappresentato un’esperienza simbolica intelligente e rara nell’ambito di quel ventaglio di proposte culturali con fini eminentemente commerciali, quelle “Mostre – blockbuster” definite da Tomaso Montanari nel suo “Contro le mostre” del 2017. Lo storico dell’arte analizzava già qualche anno fa una tendenza attualissima, ovvero la pratica per la quale le istituzioni o i grandi musei nel nostro Paese, anziché occuparsi di curare in maniera originale il contenuto delle proprie iniziative, badano quasi esclusivamente e sempre più spesso al ritorno economico e d’immagine che possono ricavarne. Infatti, sono sempre più frequenti le iniziative all’insegna dell’intrattenimento e del divertimento dei visitatori, non tutti specialisti del settore, dalle quali poco o niente si riesce ad imparare e che lasciano poche tracce emotive o educative. Nel caso di Women in comics, al contrario, l’idea di fondo è risultata vincente, forte, coraggiosa, permettendo di comprendere meglio l’atmosfera nella quale la vecchia generazione di fumettiste si è aperta un varco spianando la strada a quelle attuali.