Vivere il Carnevale: Ca’Macana e Nicolao Atelier

Il Carnevale ha origini antichissime ed è festeggiato per il suo valore fondante: quello della libertà; libertà dai dispiaceri dell’anno trascorso che vengono esorcizzati attraverso l’ironia, libertà di espressione della propria personalità al di là di convenzioni e restrizioni sociali vigenti, il tutto all’insegna del divertimento e di una positività che fanno sentire questo momento come assolutamente naturale e fondamentale per l’equilibrio della società.

È indubbio che Venezia sia e rimanga per il mondo intero un punto di riferimento quando si parla di Carnevale proprio per le sue tipiche Maschere: per questo motivo, abbiamo chiesto a due realtà artigianali cittadine di parlarci del valore di questa festa che hanno visto e osservato mutare negli anni, avendola resa parte della loro quotidianità.

Dalle parole dei nostri interlocutori è emersa non solo una grande passione per il proprio mestiere, ma anche un grande amore per questa città, resa unica anche dal suo Carnevale. Con piacere abbiamo scoperto queste due realtà artigianali essere complementari, non solo ai fini della creazione di un costume completo in stile veneziano, ma proprio in quanto esperienza di vita a Venezia: da un lato Davide Belloni, cresciuto nella bottega di mascherai di famiglia, tornato a fare il mestiere dei genitori nella città natale dopo un lungo periodo di distanza; dall’altro Stefano Nicolao, costumista teatrale specializzato in vestiti storici e docente all’Accademia di belle Arti di Venezia, che si è trasferito in laguna per svolgere il lavoro che ama.

“…io nella vita non volevo fare due cose: vivere a Venezia, e avere a che fare con negozi di maschere… ma si dice che solo gli stupidi non cambiano idea”

Davide Belloni

Ca’ Macana, è un laboratorio di maschere di cartapesta attivo dal 1984 situato in Calle de le Boteghe a Dorsoduro. Il suo nome è dato dall’unione dell’acronimo dei nomi dei quattro fondatori con il “Ca’” di Ca’ Rezzonico, attuale Museo del Settecento Veneziano, che si trova proprio dietro l’angoloQuesta è stata la prima bottega di mascherai nella città lagunare: dopo la caduta della Serenissima, il festeggiamento del Carnevale aveva perso l’ufficialità che lo aveva sempre caratterizzato e la tradizione della maschera era andata affievolendosi sempre più; fu a partire dagli anni 80, con un’iniziativa mediatica avviata dalla municipalità nell’ottica dell’economia del turismo, che il tutto venne recuperato.

La maschera ha una storia antichissima, ma la tecnica della cartapesta è solitamente legata al sud-Italia, dove ci sono le sfilate con i carri e la creazione di grandi strutture. Portare a Venezia questo tipo di tecnica è stata un’idea o era già praticata e legata all’attività del teatro e della commedia dell’arte?

La tecnica della cartapesta che usiamo si distingue rispetto a quella utilizzata per le grandi strutture effimere dal carattere decisamente scultoreo tipiche di altri carnevali [ad esempio quelle di Viareggio], che prevedono la costruzione della figura attorno ad un’intelaiatura metallica; al contrario, qui si lavora “al negativo”, con la creazione gli stampi di gesso a partire dal rivestimento di una forma in terracotta (che va persa), poi foderati con la cartapesta: questa, una volta asciutta e staccata dallo stampo, dà la maschera, la cui decorazione può prendere molte strade. La cosa certa è che a Venezia c’era una grande quantità di carta, più che in qualunque altro posto al mondo: le Cartiere della Serenissima, alimentate dalla tradizione della stampa veneziana, rendevano Venezia un luogo in cui girava molta carta a prezzi più economici rispetto a qualunque altra città contemporanea, è quindi molto probabile che anche in passato la carta pesta fosse uno dei materiali privilegiati per la realizzazione di questi oggetti.

Creazione degli stampi in gesso nel Laboratorio di Ca’Macana
Decorazione delle maschere nel Laboratorio di Ca’Macana

Considerando l’immaginario e la tradizione del Carnevale veneziano, c’è stata una ricerca storico-iconografica sui modelli di maschera che proponete?

Certamente. Oltre a stampe e dipinti dell’epoca, la fonte iconografica principale per le maschere tipicamente veneziane è un libro in quattro volumi della metà del Settecento: Gli abiti de’veneziani, di quasi ogni età con diligenza raccolti e dipinti nel secolo XVIII, di Giovanni Grevenbroch, che ogni due pagine presenta una piccola descrizione e un’immagine acquarellata di usi e costumi, quindi i vari modi di mascherarsi nelle diverse occasioni. Qui si trovano spessissimo rappresentazioni della Bauta e della Moretta; l’immagine iconica del medico della peste viene proprio da questo libro. Poi c’è la Gnaga, una maschera che oggi nessuno conosce più, ma che all’epoca della Serenissima era tra le più utilizzate, caratterizzata da un nasino arricciato, come quello di un gatto, e si identificava con l’omosessualità; infine il Mattaccino, il folle, a cui fa riferimento già una legge del 1200 che ne regolava le azioni: perché le maschere a Venezia erano regolate da leggi.

Dall’alto: la Gnaga, la Moretta, il Mattacino, La Bauta

Perché, si legavano a delle azioni specifiche?

Si, perché si legavano a libertà individuali o comportamenti che erano previste per quella determinata maschera: avevano un vero e proprio stato giuridico, che permetteva ad esempio al Mattaccino di bombardare di uova marce la gente, e alla Gnaga di manifestare la propria omosessualità (sempre in anonimato, grazie alla copertura del volto), nonostante questa fosse proibita dalla Repubblica. La maschera era uno schermo, che tramite l’anonimato “tipizzato” consentiva delle libertà altrimenti non accettate

 

Che cos’è per voi il carnevale?

Per noi il Carnevale è un momento di lavoro particolare, per cui è difficile scindere tra il clima del periodo e quello che di fatto è un momento di extra-lavoro, oltre che di preoccupazione: noi lavoriamo a Carnevale un po’ come i camerieri lavorano durante tutte le feste. Naturalmente, producendo maschere, siamo coinvolti e siamo molto felici quando abbiamo la possibilità di partecipare anche come utenti e non solo come tecnici alla festa, ad esempio nella Rievocazione Storica del Giovedì Grasso organizzata dall’associazione Mascareri; però, è sempre difficile scindere le due cose.

Secondo la vostra esperienza, il sentimento della gente è mutato o lo sentite rifiorire ogni anno lo stesso modo?

Beh, è mutato sicuramente, perché si è via via trasformato in un evento commerciale. Inoltre diminuendo il numero degli abitanti e invecchiando la popolazione, alla fine i veneziani spesso subiscono il Carnevale più che prendervi parte. Questo si deve a come viene amministrato il tutto: ci sono carnevali dove la gente partecipa molto di più alla “festa”, come in Germania, Austria e Svizzera; qui invece è andato scemando e con il tempo tutto si è un po’ svuotato di significato diventando una cosa molto televisiva.

Come percepite voi la tendenza di fare tutti questi balli mascherati?’

Noi ci lavoriamo sicuramente, ma non è il senso del Carnevale perché è qualcosa di molto esclusivo a cui non puoi partecipare se non spendendo cifre da capogiro; ci dovrebbe essere più festa alla portata di tutti, che non sia solo musica, che sfrutti il teatro, gli spettacoli e altre attività. Tre anni fa avevamo finanziato un piccolo palchetto per una piccola compagnia di commedia dell’arte qui in Campo San Barnaba: ne è risultata una cosa simile a quello che succedeva quando ero piccolo e si andava per le strade incappando in queste rappresentazioni: è il bello del Carnevale, che coinvolge il pubblico e non costa nulla se non improvvisazione, ed è un peccato che nel tempo sia andato perso, perché è proprio così che nasce la commedia dell’arte. Permetterebbe anche di deviare i flussi dei turisti dalle solite quattro assi e portare veramente la gente nella città, anche se devo dire che quest’anno, che non c’è nemmeno il palco in Piazza San Marco, il carnevale è tornato un po’ ad essere una cosa diffusa … poi, nell’incertezza generale data dalla pandemia quest’anno nessuno si aspettava che veramente si sarebbe potuto fare e ci si è presi un po’ all’ultimo, ma non si può pretendere troppo perché parliamo sempre della fine di una situazione eccezionale, quindi va anche troppo bene.

Alcuni scatti dal laboratorio di Ca’Macana










“Tutto deve essere supervisionato, perché la mia immagine è quella che mi ha fatto crescere fino ad oggi, quindi non esiste che si debba cambiare, anche se le spese sono considerevoli: deve essere garantito il prodotto che esce”.

Stefano Nicolao

Nicolao Atelier è una sartoria teatrale con uno showroom strepitoso inaugurato nel 1980 per portare in città un punto di riferimento per il costume. L’atelier si affaccia sul rio della Misericordia e le sue vetrine non passano inosservate alle centinaia di turisti e veneziani che ogni giorno passeggiano in questa zona di Venezia nota per i tipici ‘bacari’. Composto di 12 dipendenti fissi, l’atelier realizza internamente praticamente tutte le parti del costume storico, dalle crinoline ai copricapi, con eccezione delle calzature, affidate ad un artigiano della Riviera del Brenta che comunque segue dei disegni realizzati dal titolare, Stefano Nicolao. L’atelier ha guadagnato la propria fama costruendo negli anni un repertorio di oltre 15 mila costumi realizzati per varie produzioni, da quelle liriche-teatrali a quelle cinematografiche: vanta un abito storico al Metropolitan Museum Costume Institute di New York, e numerosissime collaborazioni con produzioni cinematografiche candidate anche agli Oscar (da Elisabeth a Casanova a Marie Antoinette).

Quanto è importante per la vostra realtà il legame con la città di Venezia, che vive anche della sua immagine di ‘città del Carnevale’?

I negozi qui a Venezia non possono vivere tutto l’anno se realizzano esclusivamente oggetti legati a questa occasione, dunque la mia partenza è stata quella dello spettacolo, poi il Carnevale è diventata una delle passioni che ho legato al mio lavoro, visto che ci troviamo nella città in cui attorno a questa festa ogni anno si crea un evento mondiale e internazionale il cui vero senso è quello di travestirsi, di cambiare l’identità indossando panni che non sono quelli di tutti i giorni. Uno spirito che a livello di costume non si esplica solo in costumi storici, ma anche con costumi “attuali”, nel senso che abbiamo un repertorio novecentesco o contemporaneo soprattutto per frac, smoking, abiti da sera importanti. Tuttavia, il mio grande repertorio è quello storico, dal Cinquecento al Settecento, quello che Venezia ha avuto come periodo di grande gloria fino alla propria scomparsa: questi sono gli stili più richiesti dalle produzioni che vogliono rappresentare la città.


Sui costumi del Cinquecento e storici in generale viene fatta una ricerca iconografica o c’è anche una preponderante componente creativa?

C’è chiaramente una ricerca iconografica ma ci sono anche più dimensioni nel costume, perché se dobbiamo fare una cosa ‘filologica’, per il museo, per una ricostruzione, ci si deve attenere esattamente ai dettami dell’epoca; per i film, dove la telecamera indaga il primo piano, bisogna fare attenzione ai dettagli; nel [teatro di] prosa c’è una sintesi, perché c’è molta parola, dunque non si può disturbare quello che viene raccontato con grandi apparizioni o grandi esplosioni: sì, colpo d’occhio va bene, ma non può essere un elemento di disturbo; nella lirica, dove c’è tantissima musica, canto, persone, l’orchestra, tanta roba, bisogna cercare di far risaltare quelli che sono i protagonisti nell’insieme delle centinaia di persone che appaiono nella scena. Il Carnevale ha poi altre caratteristiche… la dimensione è quella principalmente di personalizzare il carattere e il desiderio della persona, quello che uno vuole diventare, cambiare e mettersi: il costume non appartiene a un racconto drammaturgico teatrale, ma è una cosa personale, per cui uno vuole diventare principe, principessa o un accattone.

E a proposito di questa questione dell’impersonare altre figure, ci può descrivere magari una richiesta molto particolare fatta da una persona per un costume?

Beh, una è un po’ difficile da dire, perché più che altro potrei dare un’idea dello sviluppo dei primi carnevali, cioè quelli della fine degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta, dove c’era proprio questo desiderio di vestirsi, cambiare, trovare un modo di divertirsi e uscire da quella che era la normalità; invece via via si è sviluppata in una cosa che è stata più commercializzata, anche come tendenza di vita, non legata al desiderio ma all’idea di apparire, di uscire da una massa ed essere distinti da un insieme, di essere vistosi. Non a caso quelle conosciute dagli stranieri come ‘le maschere veneziane’ sono delle impalcature pazzesche, cose completamente fake che non hanno una vera tradizione, ma sovrastano la folla (un po’ come le cortigiane nel Cinquecento che indossavano i calcagnetti che le alzavano anche di 50 cm) anche se in realtà non c’è nessun’introspezione psicologica.

Sì, mi pare molto in linea con una società globalizzata in cui se il tutto diventa semplicemente un ‘vestire una maschera’, si perde totalmente la patina introspettiva

Esatto, anche perché poi questa cosa delle feste a palazzo era partita come un sogno che uno poteva avere, di prendere la gondola e arrivare a palazzo, rivivendo un’emozione di passato, una sensazione fuori dalla realtà, ma oggi è diventata una cosa talmente commerciale, uno ha tutto già programmato, un pacchetto, riceve due fotografie e sparisce… non c’è più la sorpresa. Il Covid ha fatto molto male in tutti i sensi, ma ci ha fatto riflettere, cambiare un poco la visione delle cose, e c’è stato, forse, un recupero del desiderio di vivere il momento, avere la possibilità di stare in compagnia, di fare una serata bella, magari elegante, da vivere come emozione e come esperienza più che come una cosa che si deve fare per moda.

Per un atelier che nel periodo di Carnevale è oberato dalle commissioni, il fascino della festa in sé come lo percepisce una persona che lavora nel Carnevale e per il Carnevale?

Vivere il momento del Carnevale è per noi eseguire e realizzare le cose che appartengono a un tema,  a un tipo di manifestazione, e al momento in cui viviamo: io ho fatto tutti gli anni i costumi per Il Volo dell’Angelo, e lì c’è una mia invenzione che è legata a quello che è il tema, a cui si somma la mia sensazione, perché, come molti che si occupano di costume nel senso di immagine, avverto quella che è la mutazione della società…Il ventaglio delle sensazioni e dei modi di essere si manifesta sempre di più oggi nella quotidianità, perché acquisiamo una libertà sempre maggiore: quindi per vivere oggi il Carnevale, per essere aggiornati, bisogna evolversi e seguire quello che è il gioco, la tendenza, pronti a un passo indietro e ad uno avanti. L’idea di questo Carnevale è un po’ questo futuro che è il nostro passato e il nostro futuro, un percorso che non può essere fermo. Leonardo diceva “L’acqua che tocchi è la prima di quella che va, e l’ultima di quella che viene, così il tempo presente” cioè, l’acqua che tu tocchi in questo momento è l’ultima di quella che sta andando, è la prima di quella che viene e il nostro presente è proprio quell’istante: questi momenti hanno il passato e contengono già il futuro pronto, quindi ecco che non si può essere statici e bisogna essere molto agili in tutto.

Alcuni scatti da Nicolao Atelier






Prospettiva interno dell’atelier con deposito costumi




Quest’anno siamo tornati a vivere Venezia nel periodo dell’anno più caratteristico: è stata una gioia per il cuore vedere in giro per la città adulti e bambini travestiti e sorridenti mentre lanciano coriandoli o stelle filanti, e assieme a loro tutte le persone che hanno deciso di trascorrere una giornata all’insegna del buon umore combinato alla visita di una città unica. Che tutto questo sia lontano dall’idea del Carnevale veneziano del periodo di splendore della Serenissima, alla quale sono ispirate le maschere che tutti fotografiamo, ammiriamo e immediatamente appaiono nella nostra mente appena nominiamo Venezia, non è un problema: la cosa importante del Carnevale non è tanto la coerenza storica dei costumi o il rispetto di una tradizione passata, quanto il fatto di viverlo appieno, con consapevolezza di chi siamo e quel che è stato, e sguardo rivolto al futuro.

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