Oggi trattiamo di un autore le cui opere sono accolte nell’esposizione permanente del Moma di New York, e la sua casa ad Ivrea è dal 2018 patrimonio dell’umanità UNESCO. Un autore che ha collaborato con Carlo Scarpa, Gae Aulenti ed Ettore Sottsass. L’artista è l’Olivetti: le sue opere sono macchine da scrivere e calcolatrici, la sua casa è il complesso industriale di Ivrea. Invece che usare il bello come patina per la propria immagine e i propri prodotti al mero fine di vendere, ha fatto dell’arte e della cultura parte integrante della propria azienda, un dovere morale vero dipendenti e clienti.
E quale posto migliore per iniziare ad approfondire se non uno spazio pensato appositamente per presentare la Olivetti al pubblico? il negozio di Venezia ancora si presenta come alla fine degli anni Cinquanta, epoca d’oro per l’azienda. Quello della città lagunare, capsula del tempo di tante epoche, è l’unico sopravvissuto degli “showrooms” Olivetti. Tra i vari sono memorabili quelli di: New York, Parigi, Buenos Aires, Roma e Düsseldorf. Ognuno con il suo stile e spesso con vere e proprie opere d’arte all’interno, ognuno profondamente Italiano ma declinato nel linguaggio locale.
Questo si esprime anche nel negozio di piazza San Marco, tramite l’abile mano di Carlo Scarpa: il pavimento in terrazzo veneziano rivisitato usando tessere di mosaico e un ordine geometrico; la scala in marmo di Aurisina, tipico dei palazzi veneziani prima che si iniziasse ad usare la pietra d’Istria; la scultura bronzea di Alberto Viani posta sopra la vasca d’acqua all’entrata; l’ingresso, sapientemente rientrato rispetto alla facciata del negozio, per ingannare l’occhio del passante distratto dando la sensazione che la vetrina si estenda sulla piazza con le macchine in esposizione su leggeri supporti. Insomma, arredi che richiamano la tradizione locale in chiave moderna.
A New York, sulla quinta strada, dove si trovano tutti i negozi di maggior prestigio, sessant’anni fa avremmo visto anche quello Olivetti, progettato allo studio BBPR. Come quello veneziano, anche il negozio newyorkese presentava la facciata d’ingresso rientrante nella parete, ma lo spazio risultava totalmente diverso per i lucidi marmi sontuosi impiegati. Le macchine erano presentate su statuari pilastri che sembravano alzarsi spontaneamente dal pavimento, una parete era dedicata al bassorilievo di Costantino Nivola (ora conservato ad Harvard), mentre l’illuminazione, come in tutti gli showrooms esteri, era garantita da lampadari di Murano. Ancora più futuristico era lo showroom di Buenos Aires, curato da Gae Aulenti, dove un gioco di riflessi e luci faceva sembrare le macchine quasi sospese in un luogo fuori dallo spazio. È evidente, quindi, come Olivetti abbia inteso il connubio fra arte e prodotto sia come espressione estetica sia come anelito culturale.
Ogni luogo diventa una possibilità per nuove sperimentazioni, pur mantenendo una sensazione di familiarità con l’estetica della ditta: non è un caso che tutti i modelli di macchine da scrivere e da calcolo posizionati sugli scaffali dei negozi non stonino mai con il design e l’architettura degli ambienti in cui sono immersi, spesso molto diversi tra loro, diventandone parte organica. Si può fare un facile confronto con l’approccio di Apple: anche questa ha sicuramente un’ottima cura dell’estetica del suo prodotto e dei propri negozi dedicati in cui presentarlo, ma ogni store è pressoché identico e interscambiabile con gli altri, manca di una propria personalità o di carattere, e, se si esclude qualche caso particolare di negozi situati in palazzi storici, altro non sono che una luminosa tela bianca dove vendere il nuovo modello ma non stimolano l’acquirente con idee nuove, anzi lo lasciano orfano in uno spazio anonimo.
Qualsiasi acquirente sarebbe potuto uscire dal negozio con in mano una macchina da scrivere in valigetta: la portatile Lettera 22 era relativamente leggera (pesando solo 4 kili) e la si poteva usare sulla scrivania di casa o sulle ginocchia. La Lettera 22 non solo è stato lo strumento prediletto di molti giornalisti, ma è anche un’opera d’arte premiata come eccellente pezzo di design mentre una è conservata al Moma. Ciò al tempo non era per nulla scontato dato che il requisito di maggior importanza per questo tipo di oggetto era la portabilità sia per peso che per dimensioni. Un simile successo è stato possibile solo grazie alla collaborazione tra Giuseppe Beccio, autore della meccanica, e Marcello Nizzoli, che ne ha curato design e scocca: l’interno per l’esterno e l’esterno per l’interno, senza l’armonia delle due un prodotto simile non esisterebbe, dall’unione di capacità tecniche e bellezza nasce un oggetto pressoché perfetto.
Non solo design ma anche innovazione, infatti Adriano Olivetti puntava moltissimo sull’evoluzione tecnologica sia dei prodotti meccanici che non. La sua azienda fu tra le prime a fare ricerca nel campo dei calcolatori elettronici, ricerca che ha portato a due miracoli della tecnica: il mainframe Elea9003, primo computer interamente a transistor del Mondo, e la Programma 101, il primo vero e proprio personal computer della storia. Entrambe furono pensante con un occhio di riguardo per l’utilizzo e l’estetica: l’Elea non è costituito da alti armadi (come erano i computer del tempo) ma da una simile disposizione di moduli più compatti e di facile accesso, e valse il Compasso D’oro a Sottsass che lo curò; la Programma 101, invece, è il primo computer pensato per stare su una scrivania ed essere usato da persone che non fossero programmatori, permettendo anche l’uso di programmi su schede magnetiche; il Moma ne conserva ed espone un esemplare.
Questa era la cura messa in ogni prodotto dell’Olivetti, con l’unica differenza che a volte per questione di necessità prevaleva il progetto tecnico a cui poi seguiva la parte del design; ma come disse Ettore Sottsass – uno dei più importanti e più apprezzati collaboratori dell’azienda – in un intervista rilasciata alla Rai:
Il design, per Adriano Olivetti, non era soltanto una cipria da mettere sopra al prodotto per venderlo di più, era il metaforizzare la responsabilità continua verso: l’ambiente, la gente e verso il destino dell’oggetto nella società
Ecco, chi è Adriano Olivetti? Basti sapere che la gran parte delle idee che hanno elevato l’Olivetti ad eccellenza industriale sono sue. Sebbene la fabbrica ereditata dal padre fosse già leader italiana nel mercato delle macchine da scrivere, Adriano ha un’altra idea d’industria, in cui il fine non è il semplice fatturato, ma il ruolo nella società e tra i dipendenti in primo luogo, i quali non sono un mezzo della produzione ma la ragione stessa di esistere della fabbrica. E’ la fabbrica al servizio delle persone e non viceversa, e lo stesso vale per i clienti a cui i prodotti andranno venduti.
Adriano crede nell’importanza culturale dell’azienda nella società sia nel diffondere la cultura tra chi ne fa parte sia nel produrne di nuova. Questo si concretizza in primo luogo negli edifici delle fabbriche, che sono pensati a misura di operaio: ampie vetrate, soluzioni architettoniche di grande effetto sia estetico sia legato al benessere di chi ci lavora; spazi comuni per il ritrovo che fungono anche da luoghi di associazione come la mensa, dove spesso avevano luogo incontri culturali. E in più: un asilo nido per i figli dei dipendenti e una biblioteca con oltre 50000 volumi a disposizione. Questo solo ad Ivrea, ma il disegno di industria che ha in mente Adriano Olivetti prende forma ancora meglio nello stabilimento di Pozzuoli, dove l’ideale non era limitato da edifici preesistenti. Su progetto di Luigi Cosenza e con la collaborazione di altri, tra cui Nizzoli, si realizza una fabbrica che sembra piuttosto un’elegante villa: gli ambienti si sviluppano soprattutto in senso orizzontale, con vetrate che si affacciano sul verde dei giardini e sull’acqua del golfo. Fu la prima industria del nord ad aprire uno stabilimento nel sud Italia.
All’inaugurazione Adriano disse:
Di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata, nell’idea dell’architetto, in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno. La fabbrica fu quindi concepita alla misura dell’uomo, perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza
Da queste parole emerge la sofferenza che Adriano aveva provato quando il padre lo mise a lavorare in reparto a tredici anni per un’estate intera: come raccontò successivamente, la sensazione di alienazione provata durante il lavoro lo portò a riconsiderare per sempre come dovesse essere una fabbrica. Purtroppo, con la morte prematura di Adriano Olivetti nel 1960, pur restando l’azienda di primaria importanza a livello mondiale, parte della spinta culturale e sociale si dissipò; fu anche abbandonata la ricerca in ambito elettronico e questa fu probabilmente una delle più grandi occasioni perse della storia industriale italiana.
Si potrebbero scrivere volumi su cos’è stata l’Olivetti e sulle idee di prodotto, di industria, di società, di arte, di innovazione, che ha portato; e altrettanto si potrebbe fare su Adriano Olivetti, l’uomo che più ha lasciato un’impronta nell’azienda. Con questo testo vorrei ricordare brevemente la possibilità di creare (e ricreare) un modo diverso di fare azienda, più vicino all’uomo ed esaltato dalla collaborazione artistica.