Uno scrittore e un regista di due generazioni diverse rispondono alle domande del pubblico e si interrogano sul futuro dell’arte nell’epoca della crisi della sinistra. È ciò che è avvenuto a dicembre 2019 durante la trasmissione Studio –B Unscripted; ad aprile, all’interno della collana Des mots, diretta dallo stesso Édouard Louis, è uscita la versione francese di questo dialogo con Ken Loach.
La questione del rapporto tra atto estetico e dimensione politica non può certo essere sviluppata in poco meno di 70 pagine. Cosa ha da dirci dunque questo libro? Che qualunque riflessione è in qualche modo situata, e che per questo il personale è sempre presente. E infatti Édouard Louis, in un’atmosfera di amicizia, comincia ringraziando il regista per il suo film I, Daniel Blake, sotto la cui influenza ha deciso di scrivere il libro su suo padre, Qui a tué mon père, già tradotto poco dopo la sua uscita in italiano per Bompiani. La conversazione assume poi toni e argomenti prettamente politici, all’interno dei quali però emerge subito una domanda fondamentale: come può l’arte porre e ripensare la questione della violenza di classe? Ken Loach ne ha fatto il punto centrale del suo lavoro cinematografico, dando voce e rappresentazione ai dimenticati, alle classi popolari dominate, per le quali la politica, prima di ogni altra cosa, rappresenta una questione di vita e, molto spesso, di morte. Qui si inserisce però già una prima sottolineatura: Édouard Louis fa infatti subito notare che la comunità, isola felice che spesso ritorna nel cinema sociale, cela al suo interno tutta una serie di meccanismi di violenza che Pierre Bourdieu definirebbe simbolica, in primis il dominio maschile, il razzismo e l’omofobia.
Questo è uno snodo centrale che a più riprese ritorna nel testo; quando Ken Loach verso la fine fa appello alla nozione di bene comune, Édouard Louis afferma che ogni atto è sempre un atto in opposizione a qualcos’altro, il gusto delle classi dominanti si costruisce attraverso il disgusto del gusto altrui. Il reale è relazionale, come recita uno degli slogan dell’eredità di Bourdieu, autore imprescindibile per qualsiasi socioanalisi dei mondi artistici. In ogni caso, non è forse che questi meccanismi di dominazione derivano a loro volta da condizioni materiali particolarmente difficili? È facile essere tolleranti quando si possiedono sicurezze a livello economico, molto meno quando si vive quotidianamente una situazione di sfruttamento o di precarietà. “La politique, c’est aussi la possibilité de l’amour” (p. 51). La politica è anche condizione di possibilità per l’amore e la tenerezza. È evidente ad ogni modo che l’obiettivo sia un ripensamento del linguaggio della sinistra, oramai capace solo di rispondere (malamente) agli affondi della destra; ma cosa ha a che fare tutto ciò con l’arte?
Questa breve introduzione risultava necessaria ad inquadrare la risposta di Édouard Louis alla domanda quale è, secondo voi, il valore dell’arte in un particolare periodo di crisi politica? Il testo verrà tradotto, ma forse non è il caso, in questi mesi particolari, di attendere troppo e dunque mi sembra giusto riportare un tentativo di traduzione qui:
Per quanto mi riguarda, credo bisognerebbe sempre portare avanti una sorta di sospetto nei confronti dell’arte, atteggiamento che è l’inverso del discorso dei dominanti sulla necessità dell’arte all’interno delle nostre società. E questo perché molto spesso dire “noi abbiamo bisogno dell’arte” non serve che a riaffermare indirettamente il proprio privilegio, la propria possibilità di accesso e la propria relazione di classe all’arte, in opposizione alle masse di incolti che non vi si interessano. Più si sarà duri con l’arte e più l’arte sarà migliore, non credete? In verità, la storia dell’arte è la storia di una polemica con l’arte, ed è così che le cose avanzano. […] L’arte si fa in una forma di collera con l’arte, e non quando serve da strumento di soddisfazione di sé per le classi dominanti. (pp. 61-62)
La cosa interessante è che quanto detto sopra conduce ad una ridefinizione del concetto di bellezza, da sempre al centro di qualsiasi riflessione estetica: l’opera d’arte, nel provocare la collera, dovrebbe in qualche modo spingere al miglioramento di una situazione. La bellezza ci rende migliori solo se si lega ad un sentimento di rabbia che porta a battersi.
Queste considerazioni potranno sembrare ingenue certo, ma è indubbio che molto spesso l’arte si ponga ignorando deliberatamente le domande che aprono la quarta di copertina di questo libro. Una l’ho già riportata e riguardava la violenza di classe. Le altre due sono le seguenti: Come inventare un’arte che destabilizzi realmente i sistemi di potere e non si accontenti di descriverli? Quale può essere il ruolo dell’arte in un contesto politico mondiale inquietante?
Ultima precisazione. Non corriamo il rischio affrettato di riportare in campo la vecchia idea dell’art engagé contro l’arte pura. Ogni atto estetico è impuro perché mobilita una serie di relazioni sociali di potere. Bisognerebbe allora tenere sempre a mente ciò che Bourdieu, autore di riferimento per Édouard Louis, afferma nel post scriptum finale delle Regole dell’arte che porta il titolo di Per un corporativismo dell’universale:
È necessario e sufficiente respingere la vecchia alternativa fra l’arte pura e l’arte impegnata che tutti abbiamo in mente, e che riemerge periodicamente nei dibattiti letterari, per riuscire a definire quali potrebbero essere i grandi orientamenti di un’azione collettiva degli intellettuali.
(Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, Milano: Il Saggiatore, 2005, p. 429)
Da leggere
Édouard Louis et Ken Loach, Dialogue sur l’art e la politique. Paris: Presses Universitaires de France, 2021.