Che cosa possiamo ottenere guardando un’opera d’arte? Stupore, coinvolgimento, commozione, oppure la tanto menzionata sindrome di Stendhal. Tommaso Marangoni rispose al quesito nel suo volume Saper vedere: come si guarda un’opera d’arte, creando una vera e propria guida all’osservazione delle tele, e suggerì che ciò che possiamo ottenere è direttamente proporzionale a come osserviamo l’oggetto d’arte di fronte ai nostri occhi. Ma cosa accade nel momento in cui la tela non ci comunica nulla, non ci dà alcun indizio, nessun segno di vita, neppure un minimo cenno di autorialità? Entra qui in gioco una figura che a sentirne pronunciare il nome parrebbe poco nota ma che ha permesso al mercato dell’arte di evolversi sino al livello di uno dei più fruttuosi nell’economia mondiale: il connoisseur.
Tradotto dal francese, “il conoscitore” è, come scrisse Donald Thompson nel suo bestseller Lo squalo da 12 milioni di dollari, “un po’ broker, un po’ creatore di gusto, un po’ guida turistica, un po’ strizzacervelli”, un personaggio che verrebbe da dire non possa appartenere a disciplina alcuna da tanto è interdisciplinare. Non necessariamente si identifica in un accademico che conosce la storia dell’arte e le sue implicazioni critiche, come si potrebbe pensare di primo impatto, bensì la sua professione consiste nell’individuare gli elementi che l’artista lascia sulla propria tela, come a vestire i panni di uno Sherlock Holmes alle prese con la ricostruzione di una pista di una scena del crimine, cogliendo elementi che all’occhio comune potrebbero magari sfuggire.
Uno dei primi conoscitori definibili come tali fu Giovanni Morelli, il quale, nel corso della prima metà dell’Ottocento, nei suoi saggi sullo studio della pittura rinascimentale sosteneva fosse possibile identificare l’autore di un dipinto in base al modo in cui alcuni elementi anatomici erano realizzati, ad esempio, le dita delle mani, le orecchie o addirittura gli sguardi.
Morelli, forse inconsapevolmente, diede vita ad un nuovo modo di osservare l’arte, di interpretarla e anche di collezionarla; non causalmente, infatti, sono databili a quell’epoca i primi importanti mutamenti del mercato dell’arte internazionale verso una nuova ed inedita direzione: quella del grande collezionismo americano. Si inserirà così, facendo da fil rouge tra il Vecchio Continente e il Nuovo Mondo, un conoscitore che visse in un’epoca ma che pareva averle vissute tutte: il lituano-americano Bernard Berenson.
L’università di Harvard fu la sua mater studiorum, i grandi maestri del Rinascimento italiano i suoi oracoli di sapienza, Isabella Steward Gardner, una delle principali collezioniste americane, la sua principale finanziatrice, sostenitrice e, poi, cliente. Berenson osservava i dipinti come nessuno, se Morelli scovò il tratto degli artisti dall’anatomia, il lituano ne individuò l’anima: i valori tattili, ossia significati e connessioni logiche deducibili da elementi della tela o che ad essi fanno riferimento, (come simboli o peculiarità del tratto), e che sono propri dell’individualità dell’artista.
Le capacità di Berenson consolidarono la figura del connoisseur portando alla sua definizione come “uomo che sussurra alle tele”, o meglio, che continua a sussurrare e che continuerà a farlo finché il genere umano sarà in grado di esternare anche un briciolo di creatività. Si potrebbe dire che Berenson fu l’oracolo del collezionismo della seconda metà dell’Ottocento: con le sue attribuzioni scosse il mondo della storia dell’arte fin dalle fondamenta, sconvolgendo sia gli accademici che il pubblico inesperto.
Tra lo smentire la veridicità di un Tiziano e scoprire nuovi Raffaello, Berenson si rese conto che le sue parole cominciavano ad avere un peso specifico non trascurabile tra gli addetti ai lavori, e così la deduzione fu spontanea: trasformare il proprio talento in una fonte di guadagno. In questo modo mutò il ruolo del conoscitore che, da appassionato “detective dell’arte”, divenne un “broker di Wall Street”, assetato di capolavori. La collocazione geografica del secondo epiteto non è causale: dalle sue peripezie europee ed italiane Berenson fece anche ritorno in alcune occasioni negli Stati Uniti soprattutto con lo scopo di alimentare i suoi affari con la signora Gardner, quasi a restituirle il favore dopo che lei aveva contribuito alla borsa di studio per la sua prima formazione in Europa.
Dunque, con Berenson il connoisseur si era trasformato in advisor, il continente era cambiato, lasciando spazio agli Stati Uniti come nuova terra di collezionismo artistico e ora il Dio denaro era l’obiettivo primario. A differenza di Berenson, la cui propensione alla vendita fu sempre oscillante, Joseph Duveen dominò a pieno questo nuovo panorama: definito come “il re degli antiquari”, anche se non lo fu poi così tanto, quest’uomo avrebbe potuto vendere un Arcimboldo spacciandolo per una natura morta caravaggesca. Lo si può quindi definire come l’antenato più prossimo dell’ultimo stadio evolutivo del conoscitore, lo specialista delle case d’asta odierne.
Duveen in realtà non ne voleva sapere di aste, si era formato tramite l’impresa di arazzi e ceramiche antiche della Duveen Brothers, diretta dal padre Joel e dallo zio Henry, dove comprese appieno la rilevanza e la direzione del gusto della società, britannica prima e statunitense poi, nel mercato d’arte dell’epoca, sviluppando quello che sarà successivamente definito l’occhio alla Duveen.
Attraverso la sede newyorkese Joseph ebbe l’opportunità di entrare in contatto con figure di primo piano nell’ambito collezionistico americano, di osservarli attentamente e di sapere esattamente cosa volessero e perché, facendoli pendere dalle proprie labbra e assicurandosi il loro denaro attraverso con la cosiddetta “economia della scarsità”, che fu il passo fondamentale verso il fortunato metodo di Duveen.
Joseph seppe infatti individuare i gusti della società dell’epoca senza farsi alcun tipo di riguardo circa le opere che andava ad osservare: qualsiasi tela potenzialmente vendibile andava venduta e l’indice che permetteva al prezzo di aumentare era la convinzione nei collezionisti di star acquistando qualcosa di unico, vivace ed irripetibile.
Duveen creò l’eredità per gli specialisti delle case d’asta del domani su come vendere in maniera ottimale le opere d’arte, un “manuale non scritto” in cui l’istinto si mescolava all’acuto spirito d’osservazione. Ma, in sintesi, qual è stata la reale evoluzione della figura del connoisseur fino ai giorni nostri? Essenzialmente nessuna: oggi la responsabilità detenuta da chi è in grado di leggere l’autorialità di un’opera è enorme all’interno del mercato dell’arte e in questo senso la figura dello specialista si è concretizzata come l’ultimo stadio evolutivo della pratica della connoisseurship.
Oggigiorno, case d’asta del calibro di Christie’s e Sotheby’s, per citare due nomi particolarmente noti, poggiano le proprie fondamenta sui loro specialisti e sui chairmen dei vari dipartimenti, i quali, in qualità di esperti di determinati periodi storico-artistici, oppure di una specifica categoria di oggetti, forniscono ai clienti qualsiasi risposta a quesiti o dubbi, al fine di ottenere poi, durante l’asta, quante più offerte possibili, assicurandosi dei futuri clienti attraverso una progressiva fidelizzazione. Tale processo avviene specialmente nelle vendite di arte contemporanea, così apparentemente complessa da interpretare e allo stesso tempo così mutevole di significato da far sì che la clientela necessiti ancor più rassicurazioni nel loro milionario acquisto. Del resto, il fondamentale nocciolo del mercato dell’arte è stato e sarà sempre la conoscenza.
Il connoisseur è dunque colui che conosce i segreti dell’arte e dei suoi attori passati e presenti, ponendosi come obiettivo primario quello di essere sempre un passo avanti ai suoi contemporanei per giocare d’anticipo in ogni sua attribuzione e giungere spesso ad uno “scacco matto” in poche mosse travestendosi da storico dell’arte ma indossando anche i panni del magnate affamato di denaro a seconda delle esigenze: un trasformista per tutti i gusti.