L’architettura è una materia che mi ha sempre affascinato. In particolare, sono sempre stata attratta dal connubio fra utilità e bellezza che la caratterizza: mi piacciono le cose razionali, concrete, senza troppi fronzoli, ma anche le cose belle, anzi, penso siano necessarie. Viene da pensare che un edificio per essere funzionale non debba essere per forza anche bello, eppure, il suo aspetto è fondamentale perché in quanto esseri umani siamo inevitabilmente influenzati dall’ambiente che ci circonda.
Per trovare il giusto rapporto tra utilità e bellezza secondo molti architetti è necessario prima di tutto studiare il genius loci. Etimologicamente “spiritello del luogo”, indicava nella religione romana antica un’entità, una divinità legata a un luogo abitato e frequentato dall’uomo. In epoca moderna il concetto di genius loci è stato adottato in architettura per intendere il rapporto che intercorre fra un luogo e la sua identità: non solo, dunque, l’ambiente fisico e le sue strutture architettoniche, ma anche tutte le espressioni socio-culturali, le abitudini, il linguaggio intrinseco a un determinato luogo.
Perché un edificio sia veramente utile, veramente funzionale, è necessario studiare le necessità degli individui cui l’edificio è rivolto, ma anche i loro sogni, le loro aspettative per poter dare loro un luogo bello in cui la vita può svolgersi. È questo che rende l’architettura non una mera questione di calcoli, bensì un’arte, una materia complessa, in cui creatività, rigore tecnico, politica, impegno civile e una comprensione profonda dell’essere umano e del suo contesto si compenetrano.
Giancarlo De Carlo, in tal senso, è forse l’architetto che meglio rappresenta questo modo di fare architettura, la capacità di saper leggere il luogo e capire le persone, traendone riflessioni da porre alla base del progetto. Rappresentativi di questo modus operandi sono due progetti: quello del villaggio Matteotti a Terni e quello per le case popolari dell’isola di Mazzorbo.
Il villaggio operaio Matteotti di Terni è un caso esemplare in Italia di progetto a partecipazione diretta. De Carlo infatti accettò l’incarico solo a condizione di poter interagire con tutti i destinatari delle abitazioni e progettare il quartiere insieme a loro. Fu così che nel 1969 ebbe inizio un lungo e difficile percorso, conclusosi nel 1975, che vide l’interazione dell’architetto con centinaia di famiglie, non senza difficoltà, per capire quali fossero i loro desideri.
Ci volle un po’ di tempo perché l’architetto conquistasse la fiducia delle persone, le quali non erano abituate ad essere interpellate in queste decisioni, tanto che quando finalmente si aprirono si scoprì che pretendevano meno di quello che avrebbero potuto avere.
De Carlo ricordò così le conversazioni tenute con gli operai dell’acciaieria:
“Erano molto modesti. Spesso chiedevo: ‘Perché non avete ambizioni più grandi?’. E loro rispondevano che erano abituati a non averne, perché nessuno le aveva mai prese in considerazione. Erano abituati al minimo”.
Giancarlo de Carlo
L’architetto decise così di fare una mostra in cui esporre immagini di abitazioni cui i futuri inquilini potevano ambire. Man mano, guidati dall’architetto, le persone acquisirono consapevolezza dei loro diritti e iniziò un dialogo proficuo in cui la necessità principale riscontrata fu la presenza di spazi verdi. Il risultato è un quartiere composto da 254 appartamenti, collegati fra loro da percorsi pedonali, spazi dedicati a servizi quali un asilo o un supermercato, e le aree verdi pubbliche e private, in grado di garantire il giusto equilibrio fra vicinato e privacy.
Era il 1979 quando il Comune di Venezia adottò un piano per la riqualificazione di Burano e la realizzazione di nuove abitazioni a Mazzorbo, di cui affidò la progettazione a Giancarlo De Carlo, allora docente di urbanistica allo Iuav. A differenza del villaggio Matteotti, si può definire l’intervento a Mazzorbo un progetto di partecipazione indiretta: i cambiamenti nelle modalità di assegnazione degli alloggi non resero possibile un rapporto diretto con i destinatari finali, infatti dal punto di vista urbanistico risultava un’isola molto spoglia e scarsamente abitata.
De Carlo prese come oggetto di studio e ispirazione la trama insediativa di Burano, a cui Mazzorbo è collegata da un ponte pedonale, e in generale delle isole veneziane. Propose così il tipico concatenarsi di abitazioni che si dipanano lungo i canali, intervallate da campi e campielli concepiti come il continuamento dello spazio privato della casa, volti a stimolare e ad accogliere la vita sociale degli abitanti.
Per quanto riguarda l’estetica delle abitazioni scelse di rifarsi sempre all’esempio di Burano ma in modo non mimetico, secondo lui infatti:
“per essere coerenti e risolutive, le forme nuove debbono essere strettamente appropriate al contesto contemporaneo, debbono essere cioè forme moderne. Non hanno dunque senso posizioni di mimesi o di rottura perché la vera concretezza è nella ricerca di una coerenza dialettica in cui le nuove forme abbiano la capacità di assumere la contraddizione e, allo stesso tempo, la forza per contestarla”.
Giancarlo de Carlo
Per questa ragione l’architetto utilizzò alcuni espedienti come ad esempio la sporgenza delle scale dall’edificio con l’intenzione di richiamare i camini che sporgono dalle facciate delle case veneziane.
Tuttavia, riprese i delicati colori pastello delle case dell’isola vicina, che si modificano grazie allo scintillio della luce lagunare e dei suoi riflessi sull’acqua, armonizzando in questo modo il nuovo insediamento alla tipica atmosfera della laguna a nord di Venezia. Vediamo dunque come la considerazione del genius loci abbia reso possibile la realizzazione di edifici funzionali, che davvero rispondessero alle necessità dei loro abitanti e che fossero anche belli, cioè adeguati al contesto in cui sono stati inseriti.
Emerge però anche un altro aspetto interessante da questi progetti: la responsabilità sociale di un architetto che si preoccupa della qualità della vita non solo dei singoli, ma anche della comunità, ponendo particolare attenzione agli spazi di aggregazione, di ritrovo e alla collocazione in queste strutture di servizi utili nella quotidianità come appunto piccoli alimentari o asili.
Come avviene nell’unité d’habitation di Le Corbusier o nella struttura a griglia della città di Barcellona, anche nel caso di De Carlo vi è la tendenza a considerare piccoli gruppi come dei veri e propri nuclei cittadini, con la volontà di dotarli di tutti i servizi e gli spazi necessari alla socialità. Dietro alle soluzioni pensate specificatamente per determinati luoghi si cela dunque una considerazione più ampia sull’idea di città.
In un momento storico come quello del boom economico degli anni 70 e 80, frutto della ripresa successiva alla seconda guerra mondiale, le città iniziarono ad espandersi spesso senza una logica. La crescita delle città e l’aumento della popolazione portò inevitabilmente gli architetti a riflettere sull’idea di città e di società, pensando a delle soluzioni in cui quell’idea di comunità, di vicinato, tipica dei piccoli centri italiani, potesse continuare a vivere.
Oggi, dopo circa 50 anni dalla costruzione degli edifici di De Carlo, questi si presentano ancora in buono stato, anche se è triste constatare che alcuni degli spazi volti alla socialità non siano utilizzati, o di come i servizi di alimentari o asili siano stati chiusi.
Chiaramente la società è diversa da quella di allora e sono subentrate persone diverse rispetto a quelle per cui i progetti erano stati pensati inizialmente, inoltre con la crisi economica è difficile per queste piccole realtà sopravvivere con un bacino di utenti ristretto.
La tipologia di quartiere pensata da De Carlo, soprattutto dal punto di vista dei rapporti fra i membri della comunità, è ancora valida? È adatta alla nostra società?
Al di là delle mutate necessità del nostro tempo, alcune delle tendenze di De Carlo hanno avuto certamente seguito, soprattutto fuori dall’Italia. Penso per esempio al caso di Cobe, un gruppo di giovani architetti di Copenhagen fondato nel 2006. Le similitudini con l’approccio di De Carlo di possono sicuramente riscontrare nel loro tentativo di intendere l’intera città di Copenhagen come area progettuale e, quindi, pensare ogni intervento non come qualcosa di estraneo, ma come qualcosa di profondamente inserito nel contesto. In particolare, il gruppo di architetti dà fondamentale importanza a quelle che sono le esigenze dei cittadini, coinvolgendoli nelle cosiddette “Cobe sessions”, incontri aperti alla comunità il cui obiettivo è sia quello di presentare le nuove possibilità progettuali, che quello di raccogliere opinioni e commenti della popolazione, per carpirne le necessità ed accrescerne la consapevolezza.
Chiaramente la situazione è diversa rispetto agli anni 70 e il gruppo Cobe si confronta con nuovi e pressanti problemi, come l’impatto ambientale o l’accessibilità, ma sembra che l’esigenza di creare spazi di aggregazione, destinati alla collettività, rimanga essenziale.
“La fede nell’importanza dell’architettura si fonda sull’idea che tutti noi siamo persone diverse in luoghi diversi e sulla convinzione che sia compito dell’architettura darci un’immagine vivida di ciò che idealmente potremmo essere”.
Alain De Botton
Così Alain De Botton nel testo Architettura e Felicità ribadisce ancora una volta quale sia l’importanza e il potere dell’architettura: la sua capacità di influenzare la nostra esperienza, incoraggiando uno stile di vita più democratico e comunitario.